Cinema

di - 6 Maggio 2017
In questi giorni viene distribuito nelle sale, Sole Cuore Amore, l’ultimo film di Daniele Vicari (1967). Il 25 aprile lo abbiamo incontrato a Bari al Bifest, dove è stato proiettato anche DIAZ. Don’t Clean Up This Blood. La data simbolica nella città che ospiterà fra pochi giorni il prossimo G7, la distanza apparente fra i due titoli e fra gli universi evocati, ci sono sembrati sufficienti a fare all’autore un po’ di domande sul racconto della realtà, e sulle difficoltà di prendere le distanze dal discorso del potere.
I fatti di Genova hanno rappresentato per la nostra generazione la fine dell’ingenuità. A Genova è tramontata definitivamente l’idea che l’avere a disposizione i mezzi e gli spazi per raccontare le cose dal proprio punto di vista fosse una garanzia di incolumità fisica, morale e politica. Ed è stata una scoperta spaventosa. Per te come cineasta, quanto ha influito la presenza di quel grande archivio dal basso, che però testimoniava una sconfitta e rischiava di diventare propaganda per la pura violenza?
«Il film sulla Diaz nasce da un progetto che io ho elaborato negli anni precedenti alla realizzazione effettiva. Il progetto era basato su un racconto multicanale e multiplanare. Avevo visto migliaia di ore di registrazione, realizzate con ogni mezzo e di qualsiasi qualità, dalla bassissima definizione dei cellulari di allora, alla qualità professionale delle videocamere dei cine-operatori televisivi, a quella amatoriale dei testimoni del movimento; il G8 di Genova è stato uno degli eventi più documentati della storia recente. Tutta questa mole di filmati, osservata con attenzione, conteneva degli incroci: operatori che riprendono altri operatori; la polizia che riprende gli operatori di Indymedia che a loro volta riprendono gli operatori che li riprendono. Non è altro che una mise en abîme classica dentro l’evento stesso. Sulla base di questa osservazione elementare, avevo elaborato un progetto per la rete, o per Blue Ray. Il Blue Ray era una tecnologia allora agli inizi, che aveva una capacità notevole di contenere immagini, paragonabile a quella di un hard disk. Era un progetto che doveva partire da nove film documentari girati da nove punti di vista differenti, con degli incroci, e un film di finzione, dedicato a Edoardo Parodi, un ragazzo straordinario, amico di Carlo Giuliani e morto pochi mesi dopo di lui. Questa opera aperta era basata su due principi, il surfing – almeno un centinaio di punti di contatto avrebbero permesso allo spettatore di entrare e uscire da ciascuna storia in una serie di momenti prestabiliti, – e l’apertura, cioè ogni utente avrebbe potuto aggiungere la sua storia. Questa era l’idea di partenza. Non ho potuto realizzare questo progetto per una serie insormontabile di problemi sui diritti delle immagini girate a Genova, ma così è nata l’idea per la drammaturgia del film sulla Diaz, basata proprio sugli incroci di punti di vista all’interno di un unico luogo, che è la scuola Diaz».


Qual è stata l’origine di “Diaz. Dont’ clean up this blood”?
«Il motivo per cui ho cominciato a scrivere il film è stato determinato dalla sentenza del 14 ottobre 2008 sui fatti della Diaz, che mandava assolti tutti per mancanza di prove a carico dei singoli, ma che confermava l’esistenza di gravi violenze. I fatti erano certi, ma gli autori incerti, dato che per motivi di sicurezza i singoli poliziotti non erano riconoscibili personalmente. Per questo motivo i protagonisti del film non sono personaggi reali, non sono reali né i nomi dei carnefici, né quelli delle vittime, e proprio come nella sentenza del processo di primo grado, nessuno è il vero autore di fatti realmente accaduti. Così il film ha preso vita. Il film ha un inizio, uno svolgimento e una fine, è suddiviso in cinque parti, come la tragedia classica, ma con una struttura a incastro, che permette di fruire della stessa narrazione da diversi punti di vista, incluso uno interno alla scuola che, per paradosso, nella realtà è l’unico a mancare sia per la Diaz, che per Bolzaneto. Però avendo a disposizione una documentazione millimetrica e confermata tanto dai riferimenti reciproci interni a ciascun materiale filmato dall’esterno che dalla documentazione giudiziaria fornita nei processi, è stato possibile ricostruire un punto di vista di finzione. Questo punto di vista mancante è la messinscena che serve a raccontare quello che non si poteva dire. Infatti, nel processo all’italiana, la prova si costruisce nel dibattito, ascoltando tutte le parti, sia chi offende, che chi è offeso. Quindi il processo ha fornito una quantità tale di certezze processuali che nel film ho potuto scegliere di raccontare e di riferirmi solo a fatti accertati durante processo. Per questo motivo il film non ha avuto nessun problema con il visto di censura».
Ti sei ispirato a riferimenti, ci sono autori che hai scelto come modelli?
«Ci sono grandi film di maestri che ho studiato a fondo per capirne il meccanismo narrativo e per poterlo adottare in maniera coerente, uno è Stanley Kubrick con The Killing, l’altro è La terrazza, di Ettore Scola».
Il tuo film ci mostra con grande evidenza che la repressione, la violenza fisica, non sono fatti del Novecento, che il controllo morbido dei social network e la coltre spettacolare di protezione degli anni ottanta non hanno cancellato la violenza politica esercitata dal e sul corpo delle persone.
«Sai, noi ci riteniamo tutti post-moderni. Dobbiamo per forza dire che i fatti non esistono, ma che invece esiste la loro rappresentazione. Scola commentando il mio film mi ha fatto capire che non bisogna avere paura di sporcarsi le mani raccontando gli eventi reali. Anche perché quegli eventi ti tarpano le ali soltanto se tu non sei in grado di capirli e di dominarli. Se sei in grado di afferrarli possono regalarti, in forma di metafora, dei significati che nessun’altra narrazione, se non quella della realtà, è in grado di offrire. Tutto il dibattito del primo Novecento sul romanzo realista, mostra che la sperimentazione nasce dal Realismo, il Cubismo è una forma di realismo ulteriore. L’astrattismo anche, è il risultato di una adesione soggettiva alla realtà esterna. Anche i social network vanno conosciuti e capiti, bisogna acquisire i mezzi per comprenderli e utilizzarli criticamente. O si crede, o si comprende. Credere vuole dire affidarsi a un’entità distante, capire implica un impegno diretto. Nella vita bisogna scegliere se credere o comprendere e la complessità nasce dalla mescolanza fra questi due corni del problema».
Qual è il passaggio da questa adesione “politica” alla realtà a “Sole Cuore Amore”?
«In questi anni mi sono chiesto cosa sia la realtà che io percepisco, mi sono dato una risposta brutale, il cinema contemporaneo è innamorato del potere. L’innamoramento del potere ci porta a identificarci con una figura potente. Nel potere io posso riconoscermi facilmente, io voglio essere come il potente di turno, che sia un Papa, che sia un gangster, che sia un politico; il potere genera emulazione, modelli da imitare. Io credo che questa non possa essere l’unica forma di rappresentazione del reale, chi è molto lontano dal potere è più interessante. Chi subisce il potere, sia quando c’è che quando non c’è, è molto più interessante. Dopo un lavoro di laboratorio con gli allievi della scuola di Cinema Gian Maria Volonté – scuola pubblica e gratuita – abbiamo fatto un’esperienza molto intensa a partire dal racconto di un gruppo di donne che combattono per i propri diritti sul posto di lavoro. E poi abbiamo girato un mockumentary, tra realtà e finzione, per raccontare l’esperienza di queste donne. Quando il lavoro è finito e sono rimasto solo, mi sono ritrovato in presenza di tutti questi personaggi femminili, in cui ho riconosciuto tutto il femminile della mia vita. Nell’horror vacui della fine del lavoro, mi sono chiuso in casa e ho scritto in quarantotto ore la sceneggiatura di Sole Cuore Amore, che ha due protagoniste, si svolge in un atto unico, e mi sono reso conto che le persone che leggevano la sceneggiatura si commuovevano. L’idea è piaciuta al mio produttore e lo abbiamo realizzato. Si basa sull’improvvisazione, dalla musica composta ed eseguita da grandi artisti, diretta dal compositore jazz Cesare di Battista, alla recitazione, in cui l’improvvisazione degli attori ha dato vita ai personaggi come nella musica jazz, appunto. Lo spettatore è invitato a chiedersi perché queste due donne così simili abbiano un destino così distante, perché vivano esperienze uguali in modo così diverso. In questo modo, lo spettatore è invitato a entrare in un punto di vista interno alla storia del film per comprendere cosa succede e ricomporre il significato del film. Per interpretare il film, lo spettatore deve diventare parte del racconto».
Irene Guida

Ha collaborato con Duel, Duellanti, D’Architettura scrivendo di spazio e arte. Collabora con Exibart dopo aver pubblicamente richiesto a Germano Celant di firmare una dichiarazione che ripetesse le sue parole “Ragazzi, l’arte, in fondo, è artigianato”. La richiesta non è stata esaudita. Ha inoltre studiato presso l’Università IUAV di Venezia, dove ha seguito il laboratorio di Joseph Kosuth e ha conseguito un dottorato in Urbanistica nel 2012, dopo un periodo di studi negli Stati Uniti presso la UMBC di Baltimora e la New School di New York. Svolge attività didattica e di ricerca all’Università IUAV. Fra i suoi testi, Corridoi. La linea in Occidente, Quodlibet, Macerata 2014.

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