CINEMA | Quando l’amore è estremo

di - 25 Ottobre 2012

L’eutanasia è un tema non facile da affrontare e lo è ancora più sul grande schermo, dove le immagini possono risultare emotivamente ricattatorie. Dopo essere stato presentato a Venezia, è appena uscito il nuovo film di Marco Bellocchio, La bella addormentata, che prende spunto dal caso Eluana Englaro (un episodio che ha diviso l’opinione pubblica italiana, anche se si trattò non di eutanasia vera e propria, ma di interruzione di trattamento terapeutico) e che sicuramente susciterà nuove polemiche. Al festival di Cannes, invece, ha vinto una meritata palma d’oro Amour del regista austriaco Michael Haneke. Diciamo subito che è un capolavoro. L’ultima frontiera dell’amore è dare la morte alla persona che si ama e con cui si è condivisa un’intera esistenza. Lo stesso atto di amore che Peppino Englaro ha mostrato verso sua figlia, per 17 anni costretta a una non-vita. Purtroppo se i cattolici (difficile francamente fare distinzione tra integralisti e “moderati”) non lo comprendono, abbiamo compassione per loro. Ma, al di là dei risvolti etici – che il film comunque non si pone – ciò che ad Haneke interessava era, molto semplicemente, raccontare una storia d’amore, di vecchiaia, di malattia e di morte tra un uomo e una donna, che si consuma tra le pareti del loro appartamento in un breve arco temporale, che a noi sembra però indefinito. Così come indefinito e onirico appare l’epilogo: Amour è uno di quei film che, pur non essendo un noir, non andrebbe comunque recensito per non rivelare troppo, per non dover dire ciò che è indicibile.

A dare corpo a questi due personaggi sono Jean-Louis Trintignant ed Emanuelle Riva, non premiati singolarmente, ma il cui contributo – come sottolineato dalle motivazioni della giuria presieduta da Nanni Moretti – è stato determinante per la vittoria alla Croisette. Due interpreti che si sono messi a nudo (anche letteralmente e con grande coraggio nel caso della Riva) davanti alla macchina da presa: Trintignant, travolto qualche anno fa dalla morte violenta di sua figlia Marie, ha sublimato il proprio dolore non sopito e ha tradotto la propria fragilità di uomo anziano in formidabile forza recitativa; la Riva – che ricordiamo essenzialmente per un film, Hiroshima mon amour di Resnais, altro film sull’amore (di una coppia) e sulla morte (collettiva), sul rapporto tra storia e Storia – assolve il compito ancor più difficile di dare credibilità a una donna malata di Alzheimer o di altra malattia degenerativa e paralizzante, accudita fino alla fine dal suo compagno.

Per quanto sia un kammerspiel, la bravura di Haneke risiede nell’evitare sia di teatralizzare che di melodrammatizzare la vicenda, esplorando i pochi ambienti (quello principale è il salotto) e osservando i pochi personaggi (oltre alla coppia si aggiungono una manciata di “visitatori”) con una lucidità e una delicatezza davvero rare. Facendo ricorso a pochi movimenti di macchina, a lunghe inquadrature a campi e controcampi: una “economia” della mise en scène che rende più intenso il film e ne fa un esempio di grande cinema. Il decorso della malattia, per quanto abbia momenti insostenibili per lo spettatore, mostratoci in campo o fuori campo, è sempre molto netto, preciso, senza sbavature, fino alla scena della morte, condotta con terribile, estrema, brutale naturalezza. Ma non è questa la scena più angosciosa del film, bensì quella di un incubo premonitore.

Amour è un film che si prende i suoi tempi, creando attraverso la durata una fortissima tensione nello spettatore. Pur essendo la protagonista della vicenda una musicista, non c’è tuttavia musica a scandire il film, se non in quei pochi, obbligati momenti narrativi. A dominare è, tra un dialogo e l’altro, un silenzio assoluto, che isola ancora di più questo microcosmo dal mondo circostante.

Ma la bellezza e la potenza di Amour si manifesta nel suo essere realistico e al contempo visionario, totalmente plausibile eppure poetico e metaforico: pensiamo soprattutto a due sequenze straordinarie: la prima è quella in cui il marito rivede per pochi secondi la moglie eseguire al pianoforte una sonata, come quando era perfettamente sana; la seconda nel sottofinale – più lunga e in piano-sequenza – ci mostra Trintignant che cattura un piccione entrato in casa, gettandogli una coperta. Non lo sopprimerà come ha già fatto invece con la moglie e non lo lascerà morire con sé. Haneke ci congeda con questo piccolo gesto di amorevolezza, un momento di tregua e di speranza, nella lucida follia di un uomo costretto in profonda solitudine a compiere fino in fondo le sue dolorose scelte.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 80. Te l’eri perso? Abbonati!

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