exibstoria – la fotografia IV | La fotografia e il Bauhaus

di - 28 Febbraio 2001

Un capitolo fondamentale della storia della fotografia è quello legato alla scuola tedesca del Bauhaus. In essa confluirono diverse esperienze degli anni precedenti, il che rese la produzione fotografica del Bauhaus assai eclettica; nondimeno l’affinità di spirito e di intenti che animava insegnanti e studenti della scuola, conferì ad essa una certa unitarietà ideale, se non strettamente formale.
La figura centrale, per parlare di Bauhaus e fotografia, è senza dubbio quella di Laszlo Moholy-Nagy. Originario dell’Ungheria, qui si era formato tra le suggestioni mistiche della teosofia, e la fede nel progresso tecnologico. Partendo dal costruttivismo di Malevic, Moholy-Nagy va alla ricerca di forme nuove che nascano dall’azione creatrice della luce: la macchina e i materiali fotografici non possono non diventare così il suo principale strumento di lavoro.
Nel 1920 si trasferisce a Berlino, dove iniziò a sperimentare una fotografia senza fotocamera che chiamerà “fotogramma”, consistente nell’impressionare la carta sensibilizzata in modo diretto creandovi sopra giochi di luce ed ombre. Mentre Christian Schad, pochi anni prima, aveva fatto lo stesso, ma solo con oggetti bidimensionali, come fogli di giornale, Moholy-Nagy (e contemporaneamente anche Man Ray) utilizzò a questo scopo oggetti tridimensionali proiettandone forma e riflessi in prospettiva sul piano, trasformandoli così in «modulatori di luce». Ma qual era il fine di questa ricerca? Alcune parole dello stesso Moholy chiariscono bene le sue intenzioni: «L’uomo è la sintesi di tutte le sue facoltà sensoriali, e raggiunge il massimo quando le sue facoltà costitutive sono sviluppate fino al limite delle sue potenzialità.

L’arte è strumentale in questo processo»; «L’arte cerca di creare nuove relazioni tra i fenomeni noti e quelli sconosciuti, e ci spinge ad acquisirli attraverso le nostre capacità funzionali. Questa è la ragione del costante bisogno di nuove espressioni creative». L’allargamento della visione equivale dunque a un potenziamento delle capacità umane: per contribuire a questo, la fotografia deve saper sperimentare e passare dalla riproduzione alla produzione. In quest’ottica fotocamera e obbiettivo furono utilizzati cercando soprattutto prospettive inusuali, ad esempio vedute dall’alto (sulla scia dell’inglese Alvin L. Coburn); ma fu usata anche la tecnica del fotomontaggio, prima sfruttata soprattutto in ambito surrealista: questo perché nessun purismo poteva avere un senso, tutto era orientato a un fine più generale.
Walter Gropius volle Moholy-Nagy nel 1923 come insegnante del corso preliminare. Al Bauhaus non esisteva un corso di fotografia, essa veniva insegnata e utilizzata invece per diverse applicazioni: per documentare il lavoro, per ritrarre la vita di gruppo e i suoi protagonisti, o per farne grafica, manifesti. Lucia Moholy, moglie di Moholy-Nagy, eseguì splendidi ritratti, e documentò l’architettura e la produzione di design della scuola. Florence Henri (che fu al Bauhaus un solo anno, nel 1927) creò studiate composizioni, sia lavorandovi come fotografa pubblicitaria, sia conducendo con esse raffinate ricerche tra costruttivismo e surrealismo, fotografando e dipingendo ad un tempo. T. Lux Feininger realizzò molte immagini degli allestimenti teatrali, della banda musicale della scuola, degli allievi, tutte ricche di spontaneità e con tagli di inquadratura che, per allora, erano davvero originali: può sembrare strano, ma tante foto dal taglio poco ortodosso che ci siamo scattate tra amici in gita o al mare devono qualcosa a questo fotografo. Umbo (pseudonimo di Otto Umbehr), nelle sue immagini più riuscite, si avvicinò compositivamente a Moholy-Nagy, ma i giochi d’ombra, o di rispecchiamento operati sulle persone conferiscono ad esse un carattere volutamente surrealista. Palesemente orientati in tal senso sono invece i fotomontaggi di Herbert Bayer, come l’immagine di due mani nei cui palmi sono due occhi, di sapore daliniano, e l’autoritratto in cui egli scompone il suo stesso braccio come se il proprio corpo fosse una statua marmorea.

Moholy-Nagy lasciò il Bauhaus nel 1928, e l’anno seguente fu istituito il corso di fotografia, che fu affidato a Walter Peterhans, attivo a Berlino come fotografo professionista. Peterhans volle cambiare la direzione della ricerca, e ridare autonomia alla fotografia rispetto alla grafica, per portare alla massima espressione la «propria visione nuova di cose e persone» che essa è capace di offrire; definendo «falsi problemi» le fotografie con lenti distorcenti o senza prospettiva di Moholy, egli intese dedicarsi allo sviluppo tecnico dei materiali, e alla risoluzione di problemi quali la resa tonale e l’ampiezza della grana: nelle sue composizioni l’attenzione a questi aspetti è assai chiara.
Al Bauhaus, comunque, la fotografia non fu mai costretta ad essere una sola cosa, e si inaugurò qui la sua funzione moderna interdisciplinare, spaziante tra tutti i campi della comunicazione visiva.
Concludiamo citando i nomi di due italiani, entrambi scomparsi di recente, che intrapresero in quegli anni la loro attività, tra pittura e fotografia, sulle orme del Bauhaus: Luigi Veronesi, autore di molte composizioni astratte, realizzate anche con la tecnica del “fotogramma” a colori; e Franco Grignani, che ha sperimentato per tutta la vita, utilizzando svariate tecniche fotografiche (ma non solo), gli effetti sulla visione della forma e della luce, diventando uno dei più grandi teorici della percezione.


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Daniele De Luigi


Foto in primo piano:Laszlo Moholy-Nagy, “fotogramma”



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  • ottimo servizio e articolo godibilissimo. Mi rammarico solamente che gli artisti citati siano così pochi, il periodo analizzato è ricco di figure importanti che forse valeva la pena citare.

  • Mi sembra molto pertinente ciò che scrivi riguardo alla relazione tra fenomeni noti e sconosciuti: alcuni esponenti delle Avanguardie storiche hanno raggiunto risultati che ancora oggi possono colpire l'osservatore attento. Giustamente parli di Man Ray, che realizzò anche un film ed era molto interessato a trattare la "matericitĂ " della luce (scusa la terminolgia forse un po' azzardata). Ho sempre pensato che sia stata la luce -la luce che trapassa la materia e contribuisce a definire e plasmare le forme- e il suo giusto dosaggio uno degli elementi costitutivi del lavoro "fotografico" di certi artisti di quel periodo -forse piĂą di adesso, pensa agli esperimenti, anche artistici, fatti con i Raggi X... Mi colpisce la scelta di bloccare l'arrivo inaspettato della luce in una forma, apparentemente difficile da decifrare (citi Malevic... e io ripenso al "Quadrato rosso") che depone ogni certezza antropocentrica.
    Non fraintendermi: penso soltanto che dall'interazione totalizzante dell'uomo con i suoi sensi si spalanchino quelle voragini di dubbi e ambiguità che hanno accompagnato l'uomo nel cammino del Novecento, e che la fotografia documenta molto bene (i fenomeni sconosciuti non potrebbero anche scaturire dall'evoluzione della tecnica, che consente di "guardare oltre"? E non è detto che questo "guardare" debba per forza rivelare dimensioni rassicuranti). Mi allontano un po' dal tema che hai trattato, e ripenso alla teoria di Simmel sulla "Stimmung": un paesaggio che assume le sembianze del volto umano. Un volto malinconico, apollineo, appesantito dalla tragedia del passato.
    Conoscevo Feininger solo come grande didatta: è stato anche un grande fotografo?
    Sarebbe bello saperne di piĂą.
    Stimolanti le tue parole...
    Ciao!

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