fotografia | Stato di tensione

di - 21 Febbraio 2007

Nel libro Postculture la critica d’arte Teresa Macrì parla di nuovi artisti che si stanno imponendo nel mondo occidentale, ma che provengono da Paesi in via di decolonizzazione (Africa, America Latina, Cuba). La Macrì sostiene che la loro arte sta spezzando una sorta di “schematismo simbolico” che caratterizzerebbe il fruitore occidentale, creandogli perplessità e turbamenti. Questi artisti, insomma, ci ricorderebbero che il presente è più sfaccettato e poliedrico di quanto usiamo raffigurarci. Ma questo vale non soltanto per africani, latino-americani e cubani, ma per molti artisti di provenienza extra-occidentale che, spesso, partono da una critica dei Paesi in cui vivono per far emergere tematiche che sono, in realtà, di valenza universale.
Uno di questi è Li Wei (Hubei, Cina, 1970; vive a Pechino), uno degli artisti cinesi più affermati a livello internazionale. Wei fa parte di una nuova generazione che, nel tentativo di costruirsi un’identità originale, sta ridisegnando le modalità espressive dell’arte cinese attraverso una mediazione fra la spinta verso un linguaggio globalizzato, l’influenza dell’arte occidentale e le caratteristiche specifiche della loro tradizione culturale.
In particolare, Wei realizza fotografie basate, in parte, su performance (di cui è lui stesso protagonista) e, in parte, sulla manipolazione digitale dell’immagine. In alcuni lavori compare come una testa senza corpo che fluttua tranquillamente nei contesti più disparati. A volte, un simile effetto è ottenuto tramite la tecnologia digitale; altre volte, invece, grazie all’uso di uno specchio forato al centro, specchio in cui Wei inserisce la testa, creando un mix di immagini reali e fittizie, allusive di un mondo in cui verità e falsità si miscelano. Ma le sue fotografie più famose sono quelle di corpi senza testa della serie intitolata Falls. Queste immagini mostrano Li Wei piantato a terra (come se fosse un missile) in luoghi sempre diversi: il parabrezza di un’auto, una strada di campagna o un fiume ghiacciato. Queste fotografie rappresentano simbolicamente l’atteggiamento dell’uomo moderno che tante volte, di fronte ai problemi che lo circondano, nasconde la testa sotto terra come se fosse uno struzzo.
In un’altra serie, dal titolo A Pause for Humanity, si possono vedere l’artista con la moglie e con la figlia neonata su un palazzo in costruzione. Con queste immagini dal valore simbolico Wei cerca di farci riflettere sul fatto che i progressi ottenuti con il capitalismo ci hanno fatto raggiungere traguardi alti e ci hanno dato un senso di onnipotenza, ma forse sarebbe meglio che ognuno di noi (partendo dalla famiglia, che è il nucleo basilare della società) si fermasse per un momento a riflettere per capire dove siamo e dove stiamo andando a finire. Le immagini di Li Wei nascono da riflessioni fatte, prima di tutto, osservando la realtà cinese e la “veloce e incontrollabile crescita” che la caratterizza, ma allo stesso tempo esprimono –grazie a una simbologia decifrabile sia in Oriente sia in Occidente– tematiche di attualità politica e sociale che vanno ben oltre i confini cinesi.
Anche le fotografie di Adi Nes (Kiryat Gat, 1966; vive a Tel Aviv) hanno origine da riflessioni maturate osservando la sua società di appartenenza e, soprattutto, i problemi che affliggono la vita delle minoranze etniche, sessuali e sociali e che possono essere rintracciati in qualsiasi parte del mondo. Nes sa bene in cosa consistano simili problemi perchè –in quanto omosessuale cresciuto in una città periferica di Israele– si trova in una posizione doppiamente marginale all’interno della società. Perciò, non a caso, le sue fotografie riguardano sempre in qualche modo questioni di identità.
La scena di ogni sua immagine è attentamente e dettagliatamente allestita in estetizzanti tableaux vivant che richiamano alla mente dipinti famosi della storia dell’arte, scene della mitologia greca, storie della bibbia oppure fotografie della recente storia politica di Israele. Questi richiami, però, vengono combinati con le personali esperienze dell’artista, quindi trascendono il loro significato originale per proporre una nuova interpretazione che sfida miti nazionali e ruoli convenzionali e che fa emergere le criticità di vari temi attuali.

La sua prima serie fotografica, che gli ha fatto ottenere attenzione critica e notorietà a livello internazionale, si intitola Soldiers. In essa Nes rappresenta l’esercito israeliano in un modo quantomeno dissacrante: l’esercito è composto da militari giovani e muscolosi (ripresi in vari momenti, al lavoro, al riposo, in combattimento) che, però, sono caratterizzati da una evidente e “sospetta” delicatezza di gesti e di atteggiamenti. Così, i suoi soldati negano lo stereotipo del macho e, soprattutto, il mito militaristico della Sabra, cioè di un nuovo tipo di ebreo nativo israeliano che avrebbe poco a che fare con le emozioni. Una delle immagini più famose della serie è The Last Supper (1999): la foto richiama il celebre dipinto di Leonardo da Vinci ma, al posto di Gesù e degli apostoli, sono seduti al tavolo quattordici giovani israeliani che si dilettano fra cibo e conversazione. Anche nelle tre serie successive Adi Nes ha continuato a mettere in discussione l’idea di virilità tanto quanto la difficoltà di essere minoranza. In Boys ha usato come modelli i Mizrahim, cioè ebrei (di origine orientale) che occupano una condizione marginale nella società contemporanea israeliana, mentre in Prisoners (serie realizzata nel 2003 su incarico della rivista Vogue Homme International) ha fatto posare dei modelli in scene che rendono evidenti diverse interpretazioni del concetto di imprigionamento. Infine, nella sua ultima serie (dal titolo Bible Stories) mostra persone comuni, poveri e senzatetto che ricalcano in chiave ironica eroi biblici e richiamano dipinti di maestri del Rinascimento.

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elisa paltrinieri

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