Concentriamoci sull’ultima delle
occasioni citate: il convegno che ha convogliato a Noto studiosi provenienti da
aree geografiche e disciplinari diverse. Ne citiamo alcune: la teoria della
percezione (Philippe Dubois), le scienze cognitive (Antonino Pennisi),
l’antropologia (Giordana Charuty), la storia dell’arte (David Freedberg, il quale
però ama anche dire “noi studiosi di
scienze cognitive”), la teoria del cinema (Carmelo Marabello e Francesco
Casetti). C’erano poi i “fotografologi”, qualche fotografo e ancora altri
studiosi che operano nelle diverse discipline. Due sono stati i grandi assenti.
Innanzi tutto l’arte. Erano
presenti Francesco Radino e Roberto Bossaglia, che sono fotografi; Francesco Faeta ha all’attivo una
produzione di fotografie (Nelle Indie di
quaggiù è stato pubblicato nel 1996 da Jaca Book) e anche Antonino Pennisi produce e pubblica fotografie.
Ma il mondo dell’arte e
soprattutto il modo in cui l’arte utilizza la fotografia non c’era. Peccato
perché, se prendiamo in considerazione il discorso che David Freedberg ha
dedicato alla relazione tra fotografia e tortura, un confronto con le pratiche
dell’arte sarebbe stato interessante. Freedberg, ad esempio, ha esordito
ricordando che dietro al suo ragionamento c’è la distinzione tra immagine
corporea e schema corporeo: la prima è la percezione, cioè la conoscenza che abbiamo
di noi e del nostro corpo; il secondo è l’adattamento esistenziale pre-noetico
che il nostro corpo ha quando riceve una sollecitazione esterna.
Facendoci aiutare da Wikipedia, possiamo ricondurre questa
distinzione alla differenza tra la “rappresentazione
visiva consapevole” (immagine corporea) e un concetto “caratterizzato da scarso senso di consapevolezza” (schema
corporeo). Si tratta di un’articolazione piuttosto interessante che Freedberg
ha utilizzato, nella sua relazione, per passare in rassegna immagini di
tortura, nella storia della rappresentazione antica e in quella fotografica.
Ma quando l’intervento sul corpo,
diciamo pure la tortura o la pseudo-tortura (pensiamo ad alcuni lavori di Bruce Nauman sul proprio volto oppure a quando Vito Acconci bendato
cerca di reagire al lancio di oggetti contro di lui), viene agito dal titolare
stesso del corpo, cioè dall’artista, come possiamo articolare la distinzione
tra conoscenza e pre-conoscenza, consapevolezza e pre-noetico? Mancando, al
convegno, il contributo dell’arte, questa domanda, che avrebbe consentito di
contestualizzare il discorso di Freedberg a reali pratiche del nostro mondo, è
rimasta latente nell’aria di Noto.
Il secondo grande assente del
convegno era il confronto e la discussione.
Articolato in presentazioni
numerose, generalmente lunghe e poco impostate alla interlocuzione, il convegno
offriva molti spunti. Ma sono rimasti tali. Ad esempio il discorso di Giordana
Charuty sulla fotografia onirica o sul sogno nella fotografia evoca le pratiche
di automatismo nell’arte del Novecento, le azioni sotto l’effetto di droghe e
in trans. Oppure quando Philippe Dubois ha citato le sale cinematografiche di Hiroshi Sugimoto per dire che si tratta di un lavoro di transfert dal
cinema, dedicato al concetto di immagine nel cinema, non citando l’importanza
del fattore tempo di esposizione per ottenere una messa in luce precisa della
sala cinematografica, né menzionando la relazione sia con i mari dello stesso
artista, che vengono definiti nell’immagine grazie al tempo di esposizione, sia
con le architetture che grazie al tempo perdono la propria staticità, anche in
questo caso sarebbe stato interessante discutere.
Il convegno è stato dunque denso
di relazioni ma nel senso di orazioni, in una sola direzione: dall’oratore di
turno agli ascoltatori. Gli spunti, i dubbi, le perplessità e il materiale di
conoscenza da portare a casa, come in alcuni ristoranti, in un sacchetto
individuale.
vito calabretta
[exibart]
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