Ci sono voluti tre musei per presentare la prima grande retrospettiva di
Ugo Mulas (Pozzolengo, 1928 – Milano, 1973). Oltre seicento immagini, note e meno note, sfilano sulle pareti del Pac di Milano, del Maxxi di Roma e confluiranno in estate alla Gam di Torino. Le immagini sono state messe a disposizione dall’Archivio Ugo Mulas, grazie all’indispensabile collaborazione di Valentina e Melina, le figlie, e della moglie Antonia. I curatori, in concomitanza con la ministeriale Darc, hanno sfogliato innumerevoli stampe, provini, negativi al fine di realizzare una più possibile completa e organica selezione del materiale, che offrisse quantomeno una chiave di lettura anzitutto del rapporto di Mulas con la fotografia.
La scena dell’arte: l’evoluzione della ricerca espressiva di Mulas segue e a volte anticipa le tappe salienti dell’arte di quel periodo, tra gli anni ’50 e ’70, quando ancora Milano assisteva all’intrepido fiorire di nuovi spazi espositivi, sia pubblici che privati, quando mercanti audaci e lungimiranti scommettevano, credendoci davvero, nelle nuove correnti e quando Milano era ancora un contrappunto importante rispetto a Parigi per l’avanguardia artistica.
Se a Roma sono stati destinati i reportage delle edizioni delle Biennali di Venezia, i ritratti dei personaggi che hanno fatto la storia socio-culturale dell’Italia e non solo, come Carlo Giulio Argan e Peggy Guggenheim, ma anche di artisti che erano anzitutto degli amici, a Milano si è elargito spazio all’esperienza d’Oltreoceano (1964-1967), segnata dalla volontà di esplorare l’altra faccia dell’avanguardia, quella del new dada e della pop art. Diventando presenza fissa negli studi di
Chamberlain,
Andy Worhol,
Roy Liechtestein,
Jasper Johns,
Barnett Newman e molti altri, Mulas scrive la storia di quel fermento creativo, si tuffa nel cuore della Grande mela e ne estrae un quadro lucido e sincero, che non è solo documento ma innanzitutto una lettura critica, che risponde alle ragioni dell’arte non con le parole ma con altre immagini.
La riflessione di Mulas sull’ontologia della fotografia parte dal fare tecnico, non dissimula mai i segni della meccanicità, dell’intervento mediatore dell’obiettivo. Anzi, comprende che è proprio da lì che tutto ha inizio ed è quindi lì che deve andare a indagare: i provini sono la scena della sua arte, la messa a nudo totale del suo
modus operandi. Non una ricetta per l’immagine perfetta, ma la prova della sua visione, un prodotto mentale ancor prima che fisico. Non a caso, a Milano compaiono i grandi provini dedicati a Newman e al festival comasco
Campo Urbano (1969), a voler sottolineare come certe immagini nacquero ad hoc per essere fruite esattamente in quel modo, provinate, attraverso la mediazione della pellicola che incornicia i fotogrammi. In questo modo, paradossalmente si smaterializza ogni altra forma di compromesso e, svelando il magico processo dello sviluppo, lascia che le fotografie trovino la loro libertà assoluta tra le loro stesse, congenite, catene.
Questa ricerca rappresenta le fondamenta su cui si erge l’intera opera di Ugo Mulas. Ritroviamo la stessa ridondante sistematicità di scandaglio critico e fisico della realtà in ogni singolo servizio: se si osservano i provini dei suoi reportage di moda piuttosto che pubblicitari, ancora inediti e forse considerati “minori” rispetto agli altri lavori, ci si rende conto che molti hanno la stessa struttura de
Il tempo fotografico (1973),
la
Verifica che presenta trentasei scatti pressoché identici della performance di
Kounellis all’interno di
Vitalità del Negativo, distinti solamente dal trascorrere del tempo fra uno scatto e l’altro, meticolosamente riportato dai numeri in serie dei fotogrammi. Esistono provini ben meno importanti che figurano lo stesso oggetto, sotto la stessa luce e nella stessa posizione per altrettanti scatti. Questo per dire che era il modo in cui Mulas operava sempre, senza mai prescindere da questa ricerca ossessiva: in fondo, le
Verifiche rappresentano la volontà ultima di esplicitare fino al midollo, fino a intingere le mani nell’acido, fino ad autoritrarsi con giochi di specchi traditori, quello che era stato l’inseguimento di canali espressivi che liberassero la fotografia da vecchi stereotipi e che le permettessero di accedere alle più alte sperimentazioni concettuali di quegli anni. Se quella di
Magritte non era una pipa, quelle di Mulas non sono immagini ma segni indelebili di una visione critica, di un intervento storico-culturale sul suo presente.
Il grande merito di questa retrospettiva al cubo è quello di inserire le fotografie celeberrime nel flusso della grande moltitudine di altre meno note, per esempio lo straordinario lavoro per le scenografie di
Wozzeck e di
Giro di Vite, o le immagini per gli
Ossi di Seppia di Eugenio Montale, ridimensionandole, “democraticizzando” l’intero percorso del fotografo, ridistribuendo pari opportunità tra le immagini abusate e quelle, la maggior parte, che vengono esposte per la prima volta.