FUORI QUADRO | Geometrie della Compulsione. A proposito di “Hunger” e “Shame”

di - 22 Giugno 2012
Esiste un “cinema d’artista” e un cinema fatto dagli artisti, o meglio da cineasti che poi sono anche dei grandi artisti o da grandi artisti che riescono, passando dietro la macchina da presa, a diventare grandi registi. Sono distinzioni oggi inutili, poiché i confini tra arti visive e immagini in movimento non hanno più alcun senso. Ma è pur vero che, se gli artisti delle avanguardie e delle neoavanguardie che decidevano di confrontarsi con il medium cinematografico (da Man Ray a Warhol), realizzavano “film d’artista”, ovvero sperimentali, non narrativi, non destinati al consumo di massa, negli anni Novanta le cose sono cambiate e per artisti come Schnabel, Longo o Salle girare lungometraggi a soggetto, magari prodotti da Hollywood, non rappresentava un “tradimento” rispetto alla loro ricerca nel campo delle arti visive. Alcuni, come Barney, hanno conservato la loro aura “sperimentale” pur contando su budget cospicui; altri, come la Neshat e la Taylor Wood, pur con sfumature diverse, hanno girato film che, da un lato proseguivano con altri mezzi il loro percorso visuale, costruito nel tempo attraverso la fotografia e la videoinstallazione, dall’altro hanno fatto cinema narrativo.
E Steve McQueen? Dell’artista inglese abbiamo potuto apprezzare due capolavori: Hunger e Shame. Due opere che ci dicono molto sul suo essere “artista”, ma ci insegnano soprattutto cos’è il (grande) cinema. A parte che i suoi primi esperimenti risalgono a vent’anni fa, potrebbe in fondo essere irrilevante il fatto che McQueen faccia anche parte del mondo dell’arte contemporanea, eppure oggi è un valore aggiunto per comprendere meglio il perché di certe scelte stilistiche e il percome McQueen riesca a costruire una formidabile drammaturgia senza seguire le classiche regole narrative. Hunger e Shame potrebbero apparire come totalmente opposti, accomunati dalla presenza di uno straordinario interprete come Michael Fassbender. Hunger racconta la prigionia e la morte per inedia di Bobby Sands, parlamentare dell’Ira; Shame è la cronaca quotidiana di un sex addict. Sono entrambi due film “drammatici”, ma il primo non è politico e il secondo non è sociologico. Certo, mettono entrambi in scena personaggi compulsivi, prigionieri di un’ossessione, descrivendo la degradazione del corpo, la mortificazione della carne, l’indissociabilità tra dolore e piacere. Il protagonista di Shame prova dolore anche quando soddisfa il piacere sessuale, poiché vive l’angoscia di chi non sarà mai appagato. Il Bobby Sands di Hunger, al contrario, pestato dai suoi aguzzini e disteso nudo sul pavimento della cella, guarda verso l’obiettivo con un sorriso di folle godimento. Sono due film mistici che raccontano il doloroso raggiungimento dell’atarassia. Ma se il prigioniero politico di Hunger riesce a raggiungere il suo Nirvana, annullando il corpo fino a spegnerlo, per lo yuppie newyorkese di Shame l’esaltante discesa agli inferi – che lo sconvolge poiché miete una vittima collaterale (la sorella da lui amata morbosamente all’origine della sua patologia) – non si conclude con la morte, la purificazione e la rinascita, ma lo condanna all’infinita ripetizione.

Sono due film geometrici, costruiti su una precisa idea di tempo (l’uso sublime e magnetico del piano-sequenza) e di spazio; McQueen è un architetto della visione che sa perfettamente muovere la macchina da presa, soprattutto all’interno di uno spazio chiuso, dove raggiunge il massimo di visionarietà, come nelle sequenze orgiastiche nella parte finale di Shame o in quelle opposte e complementari di Hunger, con la materia sporcizia degli escrementi spalmati sulle pareti della cella o fatti confluire sul pavimento del corridoio da un lato e l’asettica pulizia dei corpi meticolosamente curati dalle piaghe e avvolti nelle lenzuola-sudario dall’altro. La pittura e la performance, l’informale e il concettuale.
McQueen fa apparire obsoleto perfino il 3-D. Ci sono momenti in Hunger, come quando il carceriere si concede una pausa dalla violenza nel cortile o all’inizio dell’ultima parte, quando il corpo denutrito di Sands giace nel letto dell’infermeria, dove il fioccare della neve o lo svolazzare di una piuma, oltre a rafforzare il senso metafisico della scena, gli donano una profondità infinita. Per McQueen è il dettaglio a fare la narrazione, il continuo decentrare l’attenzione dello spettatore su altro, che non è mai “altro”, è il vero centro del film, poiché ci riconduce continuamente allo scorrere dell’esistenza. Malgrado tutto.

di bruno di marino

*didascalia delle immagini: Still di “Hunger” di Steve McQueen

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 79. Te l’eri perso? Abbonati!

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