È in corso la prima mostra personale italiana dell’artista statunitense Jess T. Dugan, I want you to know my story, aperta in occasione del Festival internazionale “Gender Bender”, precedentemente svoltosi, prodotto dal Cassero di Bologna. All’interno della rassegna multidisciplinare diretta da Daniele Del Pozzo e Mauro Meneghelli, l’intera città, i teatri, i musei, si sono popolati di eventi e incontri dedicati alla creazione di comunità, alla valorizzazione delle differenze, al Queer. Termine antico inglese, dal significato “eccentrico, strano”, avrebbe probabilmente origine germanica. L’aggettivo “queer” sta infatti per “perverso, inclinato”. Per lungo tempo la parola queer è stata utilizzata con accezione negativa e offensiva, avendo a che fare con il concetto di “deviazione”. Negli ultimi vent’anni però la situazione è cambiata e la tematica è diventata vero e proprio oggetto di studi. L’arte queer ha acquistato nel Novecento una propria uniformità, parallelamente alle battaglie civili dei diritti LGBT, e ha costruito a fatica un’identità disorganica in cui l’arte è stata in grado di sovvertire lo stato di equilibrio, contro categorie o canoni prestabiliti, a partire da artisti come Andy Warhol, Catherine Opie o Gilbert &George.
Jess T. Dugan, nella mostra allestita presso lo Spazio Labo’ di Bologna e curata da Laura De Marco, visitabile fino al 19 gennaio 2024, scombina la tradizione di genere mostrando visioni poetiche e variegate. I titoli delle fotografie sono di grande forza e intensità, Guardami come se mi amassi o Ogni respiro che abbiamo disegnato, e trattano temi tra cui l’accettazione del tempo, il macrocosmo della genitorialità, le trasformazioni della società, l’autenticità del vivere, l’amicizia, l’amore, il desiderio, la solitudine, la malattia, la guarigione, il lutto, la perdita, attraverso ritratti, autoritratti e nature morte. Nel suo racconto d’immagini, quasi psicologiche, a partire dall’ ultima pubblicazione Look at me like you love me, Mack Books, 2022, la macchina fotografica, come avviene ad esempio anche in altri lavori di fotografi LGBT, tra cui la statunitense Nan Goldin, è un mezzo che consente di relazionarsi ad altre persone ed essere riconosciuti. Ma cosa vuol dire oggi, in una società narcisistica ed egocentrica, che ci vuole conformi all’ apparenza, venire riconosciuti? Dugan prova a spiegarcelo attraverso tematiche anche autobiografiche, come il difficile rapporto con il padre, nel video del 2017, Letter to My Father, o le difficoltà legate alla relazione con la figlia di cinque anni, nel video del 2023, Letter to My Daughter.
“La mia pratica creativa” scrive “è incentrata sull’esplorazione dell’identità in particolare di genere e sessualità”. Dugan ha bisogno di entrare in relazione con il prossimo e incoraggia l’empatia, la critica, il dialogo, attraverso la fotocamera, l’utilizzo di luce naturale e uno stile fotografico lento. Invita così lo spettatore a interagire con gli altri in modo intimo e a riflettere sui propri processi. La sua fotografia è uno spazio emotivo, come avviene anche nella cinematografia, in film come Philadelphia o Boys Don’t Cry, fino a Dallas Buyers Club, per citarne alcuni, che contengono elementi differenti di violenza all’interno di tematiche queer, lgbt, omofobia. Le sue foto mostrano identità queer o trans che non hanno nulla a che vedere però con la violenza, sono quasi documenti sull’identità, sulla coscienza, sull’umanità, sulla complessità e le emozioni. L’invito è alla consapevolezza e alla sensibilizzazione sulla discriminazione che ancora oggi esiste e che ha influenzato il suo operato.
L’ artista, classe 1986, espone regolarmente a livello internazionale i suoi lavori, di fotografia, video e scrittura, che occupano le collezioni di oltre 50 musei, dimostrando che l’arte può essere sensibilmente, socialmente e politicamente potente. Il suo lavoro, tra l’altro anche editoriale, è assolutamente attuale e necessario, ancor più nell’odierna realtà egocentrica e disforica, centrata sull’Io, che vede aumentare i casi di violenza come strumento di risposta alla paura e alla frustrazione. Opera dunque complessa, da non inquadrare soltanto all’interno dell’ambito transgender, così da essere percepita in modo riduttivo, ma con infinite sfumature, nonostante la forte cifra identitaria.
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