In Perfect Days di Wim Wenders, il protagonista Hirayama conduce una vita più che normale, composta da una ciclica routine che riempie i giorni nello stesso inesorabile modo. Una vita anonima, dove il protagonista pare l’antieroe per eccezione. Eppure Hirayama in fondo è felice, perchè, racconta Wenders, «rinuncia al superfluo, alla corsa al successo, padroneggiando così al meglio la propria vita». Una storia dunque di una consapevole rinuncia, come le tante che abitano quest’anno le tre sedi del Festival Internazionale di Fotografia a Verona (qui il programma completo). Storie in cui, raccontano i curatori Francesca Marra e Simone Azzoni, «conta ciò che è perdente, l’elogio della fragilità . Contro l’arrivismo, il superomismo e la competizione».
In questa cornice antitetica alla frenesia e al tempo futuro, il Main Project, presso Il Meccanico, punta l’obiettivo proprio su Wim Wenders con una selezione da Early Works 1964 -1984 che mette in scena fotografie inedite, scattate nei luoghi del mondo più vari: tra Algeria e Indonesia, Islanda e Stati Uniti. E quanto più le longitudini si espandono, tanto più le invarianti stilistiche del regista appaiono nitide: paesaggi nudi, privi di ogni artificio scenico o premeditazione dove imperturbabili montagne si ergono sopra immense distese. Scatti di viaggio con una profondità di campo a perdere dove a volte manifesti pubblicitari, a volte cassette postali, diventano gli unici flebili baluardi dell’uomo. E davanti a scenari in cui la desolazione si trasforma in una dolceamara nostalgia, uomini, bambini e animali appaiono vicini all’obiettivo come incidenti di percorso, quasi a ricordare che la meraviglia, l’inaspettato, sono sempre dietro l’angolo per chi sa coglierli.
Accanto a Early Works, Švejk di Francesca Dusini, cattura con immagini chiaroscurali attori alle prese con una produzione tv. Colti dietro le luci del set, lontani dai riflettori, gli attori diventano strumento di racconto dell’alterego della ribalta. Dusini svela gli intimi lati del dietro le quinte, i gesti che lo spettatore non vede, a cui non è concesso sapere, perchè il grande gioco dello spettacolo possa compiersi.
A popolare la Galleria d’Arte Contemporanea in collaborazione con Isolo17, gli scatti di Martina Havlová, Serena Radicioli, Rolando Cabrera e Antonio Rovaldi. Le prime, i cui progetti fanno i conti con un passato familiare misterioso o bruscamente interrotto cercando di mettere a fuoco una risposta nella nebbia dei legami ormai impossibili da recuperare, in cui emergono fragilità nascoste da lunghi silenzi. Lunghi tanto quanto il tempo per celare a Radicioli informazioni di un padre che non è più tornato, e ad Havlová, per tracciare una genealogia mai conosciuta e altresì presente grazie ai racconti tramandati dal padre. Rovaldi immortala invece paesaggi scanditi dal ritmo dell’acqua tra le insenature del fiume Adige, in un tempo lento, da percorrere e ripercorrere con passi incerti, dove è concesso tornare indietro un attimo, come in fondo fa l’acqua scrociando in modo scomposto contro le pietre di fiume.
Nella terza sede del Bastione delle Maddalene, i progetti di U. Koeb, F. Cuschieri, A. Belloni, E. Martin, I. Sagaria, e V. Valette raccontano storie di resilienza e di migrazione, di rituali atavici senza tempo, perdute fanciullezze e evasioni da città ormai claustrofobiche. Storie appese ad un filo, fragili, vestite di una consapevole arrendevolezza e di quella pacifica contentezza del godere dei propri inciampi, così cara a Hirayama.
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