Sicuramente, davanti ai ventidue scatti di Roma città chiusa di Anton Giulio Onofri (Roma, 1959), di nuovo si viene travolti da quel profondo senso di smarrimento provato il 9 marzo 2020, allorquando l’ennesimo DPCM stabilì il lockdown totale sull’intera Penisola. A un anno di distanza, a La Galleria Nazionale è stata inaugurata la personale del (non solo) fotografo romano che ha immortalato la Capitale in quell’infinito presente imposto da quell’entità invisibile che è il covid. Riaffiorano i ricordi, nonché lo spaesamento, l’incertezza, ma soprattutto la sospensione di allora come di adesso, nell’eterno presente. Scattano i confronti, le considerazioni, i bilanci tra prima e ora, col pervicace tentativo di trovare risposte e soluzioni che conducano alla fine del disagio e delle limitazioni.
Disposte come una quadreria (a voler ribadire il luogo in cui sono mostrate), le fotografie ci raccontano l’immenso silenzio e la straordinarietà di quei giorni, quando tutto, improvvisamente, si fermò, i negozi chiusero, le strade si svuotarono, il traffico scomparve, le persone svanirono. “Roma deserta – afferma il fotografo – non è un’immagine inedita: tanto cinema italiano degli anni ’60 ce l’ha mostrata nel pieno delle vacanze d’agosto, assolata e con tutte le saracinesche abbassate, senza nessuno in giro. Stavolta, però, a inverno terminato da appena due settimane, l’effetto è diverso”. La differenza l’ha fatta qualcosa di invisibile. Girare per le strade, come in un “viaggio” per Roma, sicuramente non in sella a una vespa e non come in una vacanza (al contrario, sentendosi “come Charlton Heston in Occhi bianchi sul pianeta Terra, o Will Smith in Io sono Leggenda”), ha condotto Anton Giulio Onofri a immergersi in quei luoghi simbolo della città, solitamente pieni del disordinato pullulare di persone, turisti, venditori ambulanti, orchestranti di strada, per registrare quella metafisica assenza che, specialmente per i romani, è qualcosa di straordinariamente magico, insospettabile e impensabile.
Ma lo ha portato anche a calarsi in quei quartieri che nell’immaginario collettivo come nella narrazione comune rappresentano delle precise specificità. Attraverso la complementarietà dell’immagine e della parola, con la quale ha registrato anche singolari aneddoti – uno su tutti la signora con cagnolino al cellulare sulla scalinata di piazza di Spagna -, Anton Giulio Onofri ha dispiegato un racconto mediante l’impalcatura del romanzo o di una saga; ha “scritto con la luce” otto straordinari episodi, raccontati con 175 scatti, suddivisi tra le due fasi della pandemia, che restituiscono un’architettura della città vuota e svuotata. “Liberi dall’ingombro di berline, coupé, monovolumi, giardinette, furgonati, camion, autobus, scooter e motociclette, i monumenti di Roma, i suoi palazzi e i suoi quartieri risultano più limpidi e definiti”, prosegue nel suo racconto.
Nonostante risentano di un formato che avrebbe sicuramente schiaffeggiato il visitatore se fosse stato di maggior respiro, e di essere approntate in un ambiente di dimensioni contenute, le straordinarie fotografie, hanno, nella loro centralità, nelle lente inquadrature, nella pienezza non sfacciata della luce solare del mezzodì, nei colori e atmosfere attraversati da quella patinatura che appartiene anche al ricordo, una liricità che tocca altissimi livelli.
Come il taglio netto praticato dall’ombra del palazzo in piazza della Rotonda; i cancelli tristemente chiusi del solitario Colosseo; l’ostinato anziano seduto per interminabili ore sulla panca dell’area pedonale del Pigneto; la visione laterale della Cordonata Capitolina concentrata sulla defilata statua di Cola di Rienzo che, col gesto del braccio, sembra indicare il vuoto di piazza Venezia; il silenzio assordante di Campo de’ Fiori, privato anche della melodia dello scrosciare dell’acqua della fontanella tristemente chiusa; della sabbia liscia e intatta della spiaggia di Ostia; della svuotata Stazione Termini irriconoscibile per quanto è sgombra dal rumore dei viaggiatori, degli autobus, dei taxi, dei pedoni; del cencio appeso alla finestra (l’unica foto che è un blow up di un’architettura) con l’abusata, quanto illusoria e consolatoria frase “ANDRÀ TUTTO BENE”.
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