06 febbraio 2021

The Underground: intervista a Mustafa Sabbagh, tra storie di solitudini e sfondi neri

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Per The Underground, la nostra guida all'arte al di là dei circuiti convenzionali, abbiamo intervistato Mustafa Sabbagh, artista poliedrico e profondo

Mustafa Sabbagh

In questo delicato momento storico, in cui lo spaurimento del cuore condiziona la nostra esistenza, l’arte di Mustafa Sabbagh ci viene in soccorso, come una misteriosa epifania di corpi, ci aiuta a fare ordine. «Esistono un passato da rivedere, un presente da vivere e un futuro da pianificare, tutti saturi di citazioni e rimandi. Abbiamo bisogno di catalogare, fare una cernita, cosa deve rimanere e cosa andrebbe scartato, se non  addirittura rinnegato…immaginare e riprogettare, perché così oramai è già tutto superato, scaduto e senza senso». Le opere di Mustafa Sabbagh invitano a farci domande, la sua ricerca ha il fine nobile di riscrivere la storia dell’arte tramite la fotografia. 

Qual è il compito dell’artista nella società contemporanea? Qual è il colore della nostra identità? Abbiamo discusso di questo e di tanto altro con Mustafa Sabbagh. 

Mustafa Sabbagh
Candido, 2016

Dal 2012 la tua ricerca nell’arte contemporanea – per mezzo della fotografia, della videoarte e,  ultimamente, dell’installazione ambientale – si muove attraverso un “contro-canone estetico”, dove è la pelle a fare da protagonista. Perché? Come nasce questa idea?  

«L’arte è luogo d’intimità, quindi di riflessione. Al pari di religione e metafisica, l’arte è astrazione, anche  quando è figurazione. Serve a generare domande, a creare dubbi. Metto la pelle come organo e corpo a  manifestazione della mia presenza nel mondo; ma pelle come esternazione tangibile del pensiero, vero  organo regolatore della mia connessione con il mondo. La pelle, stesa donata indagata, è l’abito che ci  costringe a venir fuori dal nostro perimetro. L’unicità non è solo nel DNA, ma anche nella rappresentazione  del sé; dunque, nella pelle».  

Nel 2013 hai realizzato degli scatti a Palazzo dei Diamanti per la mostra dedicata al pittore spagnolo Francisco de Zurbarán. Il profondo studio della luce e della costruzione degli spazi dei dipinti da parte dei  grandi artisti del passato, ha mai influenzato le tue opere?  

«Ho sempre affermato di essere fatto di carne, ossa e memoria. La memoria mette tutti noi nella stanza del  tempo, vissuto anche attraverso i grandi artisti del passato. In quella mia stanza segreta dove confondo Caravaggio con Cronenberg, Cosmè Tura con Christoph Marthaler, per generare arte, pensiero e memoria». 

Venus in frame, 2017

Nel 1994 sei stato costretto sulla sedia a rotelle per ben due anni. In questi anni hai raccontato di aver cominciato a scattare dal basso. Quanto è importante saper accogliere il cambiamento nella propria vita?  

«Il cambiamento è per me fondamentale, e quando non arriva lo ricerco. Trovarmi sulla sedia a rotelle mi ha  donato una possibilità altra: vedere da un’altra prospettiva, sia fisica che emotiva, riappropriarmi del mio  tempo attraverso quel passo indietro che ti porta, rigenerato, a riprendere la corsa. Crescere non significa  procedere sempre in avanti. Alle volte occorre fermarsi, guardare indietro, guardare da lontano, andare  dentro e andare fuori, ridere, cadere. Spesso l’incompiuto è un territorio infinitamente più generoso, più  fertile». 

È possibile abbattere i muri nell’arte e con l’arte? Pensi che la fotografia di moda possa averti aiutato nella realizzazione di questo pensiero?  

«La moda mi ha regalato la leggerezza nel senso calviniano; quel tipo di leggerezza in virtù della quale è  possibile abbattere i muri, sebbene non sempre sia messa in atto. Il vero problema dell’arte, ora, è per me la  sua autoghettizzazione; adesso più che mai abbiamo bisogno del vuoto per creare nuovi mondi, strade non  tracciate, perderci in direzioni non battute. Non più la retorica del km 0, ma l’infinito: due rette parallele  possono avere un punto in comune, e questo punto è l’infinito». 

Mustafa Sabbagh
About skin – untitled, 2012

Hai descritto gli scatti di Onore al Nero “come ogni Cristo, ogni Satiro, ogni Narciso, tabagisti ready-made  e Santi peccatori, ibridi in viaggio che si velano per svelarsi, si mascherano per vedersi, in asse con la verità  identitaria di uno, in linea con la bontà selvaggia di ognuno”. Perché, in un viaggio verso l’identità, la  dissociazione è sempre nera? 

«“L’oltrenero, un nero che riflette la luce, il nero come luce oltre la luce […]” (Alain Badiou, Lo splendore del  nero. Filosofia di un non-colore). Nel modello di colori RGB, il colore Nero è #000000: composto di 0% di rosso,  0% di verde e 0% di blu. In matematica, il valore dello Zero è l’unico reale, non positivo né negativo. Così è per me l’identità, reale, non positiva né negativa, al di là dei giudizi di valore, che in qualche maniera sono  sempre mistificabili. Onore al Nero è il mio lavoro che evidenzia maggiormente l’identità con connotazioni  filosofiche e socio-antropologiche. Vorrei che in questo mio lavoro il pensato superasse l’attuato». 

Perché “La vera bellezza ferisce”? Siamo tutti masochisti?  

«Ti confesso che, di fronte alla pura bellezza, il mio stato psicofisico si altera. La pura bellezza mi procura  smarrimento, un turbamento misto a stupore, timore e una certa forma di dolore, uno stato di angoscia febbrile di cui ne vorrei ancora e ancora. Il masochismo come sottomissione psicologica al bello non è termine di una identificazione, ma è per me condizione di un simbolismo che permette, al masochista del bello, di  esprimersi mediante il suo feticismo. Spesso la bellezza è diretto corrispettivo di una certa forma di  dipendenza, tossica, ma vivifica». 

Onore al nero, Hebe vs Hebe, 2017

Se non esiste etica senza estetica, qual è il compito della fotografia?  

«La fotografia è un mezzo come lo è la pittura, l’installazione, la performance, la scultura, e come tale credo  che non abbia nessun compito preciso, se non quello, proprio dell’arte, di creare utopie. Se per “estetica” si intende solo packaging, allora io scarto per vedere il contenuto. Nietzsche dice che abbiamo l’arte per non  morire della verità; compito della fotografia è allora anche analizzare ciò che non può limitarsi solo a  documentare». 

Hai affermato “È ora di smetterla di sentirci al di sopra del mondo, ma sentirci una piccola parte”. Pensi  che questo assunto abbia influenzato la tua produzione?  

«No, affatto. Sentirmi un granello del mondo è alla base del mio essere uomo; ma, per potere essere grande, l’arte deve essere presuntuosa».  

Sulla tua pagina Facebook, durante l’ultimo lockdown, abbiamo letto splendide riflessioni da artista “recluso” al tempo del Coronavirus. Ti va di parlarci di come hai vissuto questa esperienza?  

«Essere “recluso”, per un artista, diventa uno stato di grazia, un privilegio. L’opportunità di passare dallo stato mellifluo di vanità pubblica a quello autentico di onanismo intimo, se si è capaci di resettare e riconnettersi. Credo che, tramite la pandemia, siano venute a crearsi le condizioni potenziali per una mutazione metafisica  radicale, svolta necessaria per chiudere un periodo storico infelice e desolante per il genere umano. Certo,  ho detto “potenziali”…». 

Onore al nero – untitled, 2017

Cosa ne pensi del ritorno alla pellicola da parte di molti fotografi contemporanei?  

«Per i fotografi giovani è sicuramente un atto romantico, ma per noi che abbiamo iniziato a lavorare con la  pellicola è solo un vecchio processo che sapevamo dominare. Per loro è ricerca, per noi è vintage. Poi, da romantico atipico, credo che sia molto bello sapere che i fotografi giovani amano la pellicola; in fondo non è il mezzo che conta, si fotografa sempre con la mente. Fotografare è imparare di nuovo a vedere». 

Pensi alla fotografia come a una forma di purificazione?  

«Abbiamo superato la contemporaneità, non esiste più tempo né spazio. L’urgenza e l’immobilità ci  impongono di voltarci indietro: esistono un passato da rivedere, un presente da vivere e un futuro da  pianificare, tutti saturi di citazioni e rimandi. Abbiamo bisogno di catalogare, fare una cernita, cosa deve  rimanere e cosa andrebbe scartato, se non addirittura rinnegato. Ecco la purificazione, la catarsi: ognuno di  noi deve entrare in soffitta e fare ordine, a beneficio di tutto un sistema da immaginare e riprogettare, perché  così oramai è già tutto superato, e scaduto, e senza senso. La fotografia, come ogni mezzo artistico, potrebbe farlo, se solo ci fossero meno moralismi e più visioni». 

Mustafa Sabbagh
Memorie liquide, 2012

Arte e tecnica sono due concetti imprescindibili?  

«La tecnica è come un software: bisogna saperla usare, altrimenti diventa dannosa. La tecnica va pienamente  dominata, per poi potersi eventualmente prendere la libertà di distruggerla».

Hai descritto la fotografia come “Un atto erotico che non si consuma mai, in primis con il soggetto”. Come vivi il rapporto con il modello?  

«L’arte nasce dalla volontà di possedere, di segnare, di penetrare, e come tale non può sottrarsi all’esercizio  di una certa forma di brutalità estetica, di una volontà di indagine attraverso il soggetto, la ricerca di un  metodo laico per realizzare un’esperienza della vita, e della morte. Uno dei limiti dell’erotismo è credere che il desiderio non possa avere altro sbocco che il godimento; nel mio rapporto non cerco l’estasi, ma la  mappatura dei preliminari. Ovviamente, come ogni rapporto che mette in gioco l’anima, tutto è sempre  molto conflittuale…». 

Quali sono i tuoi progetti futuri?  

«Un ritorno al passato, una catalogazione di volti per una sintesi di umanità, poi pochissime mostre e  interventi. Solo progetti che mi diano la sensazione di affogare negli abissi dell’arte. Di quella vera». 

Quale consiglio daresti a un giovane fotografo?  

«Già l’essere giovani dovrebbe dare loro la sacrosanta presunzione di non ascoltarci…ma andate sulle strade che vi fanno sentire vivi, perché il resto non è che esercizio di retorica. Farò sempre il tifo per un giovane che cerca la sua strada, perché sono convinto che nessuna strada è una strada incompiuta, tutte innescano un processo evolutivo, anche quando ci si perde, soprattutto quando ci si perde. È perdersi, il vero lusso. È  perdersi, la vera arte». 

Chat room, 2014, installazione video a due canali ostrale, Biennale di dresda

Biografia di Mustafa Sabbagh

Mustafa Sabbagh nasce ad Amman (Giordania, 1961, vive e lavora in Italia). Già assistente di Richard Avedon e docente al Central Saint Martins College of Art and Design di Londra, dopo una brillante carriera come  fotografo di moda a partire dal 2012 concentra la sua ricerca nell’arte contemporanea per mezzo della  fotografia e della video-arte.

Armonia dell’imperfezione, indagine psicologica e studio antropologico attraverso la costruzione dell’immagine e dell’installazione ambientale sono gli stilemi che Sabbagh  trasferisce con disinvoltura dalle pagine patinate, ai white cubes dei musei e delle gallerie più famosi del  mondo tra cui il Musée de l’Élysée di Losanna, considerato tempio internazionale della fotografia.

Nel 2013  Sky Arte HD, attraverso la serie Fotografi, lo ha eletto tra gli 8 artisti più significativi del panorama nazionale  contemporaneo, e nel dicembre 2017 Rai5 gli ha dedicato un approfondimento nel documentario di  produzione internazionale The sense of Beauty. A oggi, Mustafa Sabbagh è stato riconosciuto da Peter Weiermair come uno dei 100 fotografi più influenti al mondo e uno dei 40 ritrattisti di nudo tra i più rilevanti su scala internazionale.

Le sue opere sono presenti in numerose pubblicazioni accreditate  internazionalmente (tra cui Faces – the 70 most beautiful photography portraits of all time, a cura di Peter  Weiermair), in monografie sold-out (tra cui About Skin, ed. Damiani, acquisita all’interno della biblioteca di  libri d’arte della Tate Gallery, Londra) e in molteplici collezioni permanenti in Italia e all’estero inclusa la Collezione Arte Farnesina e MAXXI – Museo nazionale delle Arti del XXI secolo (Roma).

Mustafa Sabbagh è  stato inoltre chiamato a risemantizzare l’Ebe di Canova(Musei San Domenico, Forlì, 2017), la Venere Pudica di Botticelli (Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 2017), la Venere dei Porti di Sironi (Casa Museo Boschi di Stefano,  Milano, 2015).

In seguito alla sua prima mostra antologica “XI Comandamento: Non dimenticare”, il Sindaco Leoluca Orlando gli ha conferito la cittadinanza onoraria del Comune di Palermo. Sempre nel 2016, la compagnia teatrale Nèon (CT) si ispira alla sua opera omnia per la realizzazione della pièce Invasioni – dedicato a Mustafa Sabbagh, eletta da Panorama come uno dei 10 migliori spettacoli teatrali del 2016. 

Onore al nero, 2016

«L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato di scoprire che le cose  e gli esseri esistono», Simone Weil

Per le altre puntate di The Undergroud, la nostra guida all’esplorazione dell’arte diffusa al di là dei circuiti convenzionali, per scelta o per caso, potete cliccare qui.

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