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Bettina Rheims e Alessia Glaviano sul female gaze nella fotografia di moda
Fotografia
In occasione del Photo Vogue 2020, Alessia Glaviano, direttrice del Festival e senior photo editor di Vogue Italia, ha invitato la fotografa Bettina Rheims per discutere sull’importanza che il lavoro dell’artista ha avuto, a partire dagli anni ’80, nel mettere in luce certi temi fondamentali legati alla concezione del corpo femminile e alle questioni di identità e genere. La conversazione, dal titolo The origin of the Female Gaze, è stata trasmessa live su photovoguefestival.vogue.it nel pomeriggio di venerdì, 20 novembre.
Autrice di più di 20 libri di fotografia straordinari – tra cui Chambre Close, Modern Lovers, Gender studies e Rose c’est Paris – e famosa per aver immortalato con scatti leggendari alcune delle donne più celebri al mondo, da Kate Moss e Madonna a Monica Bellucci e Catherine Deneuve, Bettina Rheims è stata una delle prime fotografe di moda a ottenere fama internazionale, durante anni in cui lavorare in questo campo e non essere un uomo era estremamente raro, se non malvisto. Come ha raccontato durante il talk, all’inizio della sua carriera, nei primi anni ’80, le modelle stesse erano turbate e quasi deluse nel trovare lei dietro all’obbiettivo. Il fatto di non avere di fronte uno sguardo maschile, quello di fronte al quale erano solite posare, non innescava quella tensione implicita che serviva a farle sentire desirate e desiderabili, costituendo quindi, a parere loro, un limite alla capacità di mostrarsi provocatorie e attraenti.
«Si sentivano imbarazzate, frustrate. Si sentivano private di qualcosa, quel qualcosa che era rappresentato da quel tipo di relazione sbagliata tra modella e fotografo. Ci è voluto del tempo prima che le donne finalmente cominciassero a dire: “è fantastico lavorare con te. Possiamo fidarci, sentirci sicure. Nonostante a volte tu ci voglia portare al di là del nostro limite, possiamo comunque fidarci, perché con te è solo un gioco” ed era infatti quello che volevo anche io, giocare».
La serie Chambre Close, nata dall’idea dello scrittore Serge Bramly, è stata forse la prima a mostrare chiaramente la spinta di Bettina nel voler esplorare e indagare il corpo femminile in modo non convenzionale, attraverso l’uso esplicito del suo personale female gaze. Bramly, con cui la fotografa a partire da questo progetto iniziò una collaborazione durata poi decenni, le raccontò la storia di un uomo, probabilmente un banchiere, vecchio e solo, che andava in giro per le strade a cercare ragazze disposte ad andare in camere d’albergo a ore e spogliarsi davanti a lui senza essere toccate, solo per il gusto di fotografarle.
«A quel punto mi chiesi perché mi stesse raccontando quella storia, e lui mi domandò se volessi diventare quell’uomo. Ancora oggi non so se è davvero esistito, o se era solo pura invenzione. Immagino che non sia mai esistito, ma l’ho fatto lo stesso. Mi sono rivolta a centinaia di donne per strada, nei negozi, in palestra, nei ristoranti, sono stata schiaffeggiata da un paio di fidanzati, insultata e chiamata con tutta una lista di nomi, ma 95 donne mi dissero di sì. E così ho cominciato Chambre Close».
Accompagnata da un’assistente con il compito di scovare in giro per Parigi tutte le più piccole camere di hotel, Bettina fotografava poi le ragazze in minuscole stanze che costringevano le due donne a una vicinanza tale da farle ricordare ancora il progetto come il più imbarazzante da lei mai realizzato. Con Chambre Close l’intenzione è stata infatti proprio quella di sovvertire la narrativa, scambiando l’origine dei due sguardi anche, e soprattutto, da un punto di vista soggettivo, con tutto ciò che questo può comportare a livello emotivo e sociale. «Ho pensato che nessun uomo avrebbe mai potuto fare questo lavoro a causa di quella fiducia di cui parlavamo prima, di quella sicurezza. E questo perché se mi chiedevano di fermarmi, di non continuare, io mi fermavo. Quello che faccio è un gioco e in qualsiasi gioco hai bisogno di un complice. Le mie complici erano loro, e io non ero una violentatrice, ero una fotografa», ha continuato Bettina.
Glaviano ha poi introdotto Modern Lovers, la prima serie della fotografa concentrata sulle questioni di identità e di genere, cruciale e in un certo senso sicuramente pioneristica rispetto a quello che era stato fatto prima e a quello che sarebbe venuto dopo. Le fotografie avevano l’obbiettivo di rappresentare l’essenza della bellezza androgina come non era mai stata inclusa e celebrata prima nel mondo della moda. Vent’anni dopo, nell’ottica di riflettere sulle evoluzioni del tema durante il lasso di tempo, è uscito Gender studies.
«Ho messo un annuncio su Facebook in cui dicevo chi ero e che cercavo persone che sentissero di appartenere a “entrambi”, che non volevano scegliere, che avevano dei problemi con la propria identità, o che non avevano alcun problema ma volevano solo esprimere un’identità diversa. Così ho ricevuto email e fotografie da tutto il mondo da persone che volevano far parte della serie. Devo dire che il contesto è migliorato e l’industria della moda ha contribuito in questo, ma per il momento purtroppo lo stato delle cose non è ancora quello giusto. Spero che quello di oggi non sia solo un trend, ma che la situazione si risolverà prima o poi definitivamente grazie alle nuove generazioni, alle voci delle fotografe e fotografi che stanno spingendo verso il cambiamento».
Uno degli ultimi progetti realizzati dalla fotografa è Détenues, una serie composta da più di una sessantina di ritratti scattati lungo il corso di un anno passato in una prigione femminile. Bettina ha raccontato di essere stata spinta a iniziare il progetto da Robert Badinter, ex ministro della giustizia francese, conosciuto come uno dei principali sostenitori della campagna politica che portò nel 1981 all’abolizione della pena di morte nel Paese.
Durante la conversazione, ha parlato del fortissimo impatto emotivo che ritrarre queste donne e ascoltare le loro storie, ha avuto su di lei. «Io ero in lacrime, loro erano in lacrime, le mie assistenti erano anche loro in lacrime. In tutta la mia vita come fotografa non mi sono mai sentita così indispensabile, non ho mai sentito che qualcuno avesse bisogno di me come ne avevano loro. Il fatto che le stessi guardando restituiva loro, in qualche modo, femminilità e dignità».
Diverse istituzioni hanno organizzato delle retrospettive sul lavoro di Bettina Rheims: dal Moscow House of Photography alla Fondazione Forma di Milano, entrambe nel 2008, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi nel 2016. Nello stesso anno, Taschen ha pubblicato un volume che raccoglie tutte le sue serie, più di 500 fotografie scattate lungo il corso di 35 anni.