La biennale FOTO/INDUSTRIA ha inaugurato lo scorso 18 ottobre, nella città di Bologna, consacrando i primi dieci anni della nascita del MAST, Fondazione che persegue un’analisi culturale e fotografica sul mondo del lavoro e dell’industria. La sesta edizione della biennale, dal titolo GAME, ha come tema l’industria del gioco in fotografia. L’approccio alla tematica portante si declina in 12 mostre, una nella sede della Fondazione e 11 – fra cui una collettiva – dislocate per il centro storico della città. La curatela, anche per quest’ultima edizione, è di Francesco Zanot che, all’interno del testo critico presente nel catalogo, fa una panoramica che congiunge tutte le esposizioni e gli artisti coinvolti, descrivendo il pensiero della direzione artistica intrapresa.
Volendo quindi affidarci a tali riflessioni, rivolgiamo un primo riferimento a una mostra che ha stravolto l’idea di fruizione museale in ottica tradizionale per porre l’osservatore e le osservatrici in uno spazio di gioco. Moves: Playing Chess and Cards with the Museum (1996) è una mostra realizzata da Hubert Damish – inserita in un ciclo di mostre presso il museo Boijmans Van Beunigen di Rotterdam – che trasforma il museo in una scacchiera: le opere non vengono più contemplate ma instaurano un confronto inedito con il pubblico. È qui, secondo Zanot, che si avvalora il gioco in un dialogo di legittimazione con l’arte, superando la concezione antitetica di poca serietà e rivelandone, piuttosto, la densa complessità. A teorizzare tali concetti è stato il sociologo olandese Johan Huinzinga – sul quale il curatore della biennale pone la nostra attenzione – con il suo saggio interdisciplinare Homo Ludens che rivela il portato ben radicato del gioco nella società, livellando la cultura alta alle operazioni più spontanee.
Per farci strada, allora, in questa narrazione visiva e composita dedicata al gioco, Zanot propone quattro direzioni fondamentali entro cui rientrano le dodici mostre: il gioco come macchina (macchine per giocare); il gioco come dispositivo spaziale (spazio del gioco); il gioco come dispositivo sociale; il gioco come dispositivo per l’invenzione della realtà.
Partendo dal dato oggettivo della grandezza di questo comparto industriale, costituito da un vasto intreccio relativo alla produzione, alla consumazione, all’ambientazione, l’indagine sul gioco si focalizza sullo stesso inteso come dispositivo che condensa materia e astrazione, elementi tangibili e immaginazione. Analizzato in ambito sociologico, filosofico, storico, politico e filosofico, il gioco come dispositivo trova, all’interno della manifestazione, raffinate prospettive visive coerentemente accordate con gli allestimenti.
All’interno della macro-area del gioco come macchina incontriamo il lavoro Reach Capacity di Ericka Beckman presso Spazio Carbonesi. Se il gioco progetta ordine e leggi che esistono solo e soltanto nello spazio e nel tempo del gioco, non possiamo non pensare a Monopoly da cui effettivamente l’artista parte per porre in evidenza, attraverso fotografie e un video performativo sviluppato su strofe cantate e animazioni, le sregolatezze del mercato immobiliare contemporaneo. In questo caso la struttura del gioco diviene il linguaggio prediletto per indagare come determinati meccanismi politici si riflettono sulle azioni fisiche e sulla percezione della realtà.
Anche un microfono, inteso come dispositivo base del Karaoke, può divenire strumento che innesca riflessioni ben più profonde. In Ghost Karaoke, presso Alchemilla, l’autore Raed Yassin ci accoglie fra le memorie della sua vita: il cortometraggio Karaoke condensa ricordi personali legati al tempo in cui, da bambino, era solito divertirsi con la madre cantando alle feste religiose in Libano. Allo stesso modo, il video Tonight, confida qualcosa in più dell’artista, che da bambino ha perso misteriosamente il padre, proprio la figura mancante all’interno del ritratto della famiglia che rivolge a noi lo sguardo.
La serie di polaroid (The Absent Album), invece, tocca un altro elemento della sua ricerca, quello rivolto ai supporti stessi di cui ci serviamo per tracciare e conservare le nostre memorie. Avendo perso l’album di famiglia durante la guerra civile, raccoglie ricordi popolari dell’epoca attraverso film egiziani, così come in The company of Silver Specters si appropria di ritratti di estranei manipolandoli attraverso la pittura ed elaborando, così, il trauma della dispersione dell’intero patrimonio di fotografie familiare. The sea Between My Soul si allontana dalle vicissitudini strettamente personali per inscenare sentimenti collettivi in un musical grottesco in cui gli unici attori sono animali tassidermizati.
Olivo Barbieri, presso un’ala del Museo Civico Archeologico, presenta uno dei suoi primi lavori: Flippers. Le macchine dei flipper furono scoperte dall’autore per caso in un magazzino abbandonato e ne risultarono una grande quantità di immagini da lui scattate. La vasta raccolta di queste immagini, però, non si riduce a un desiderio di documentazione e messa in esposizione dell’object trouvè. In Flippers la ricerca visiva di Barbieri evidenzia la cristallizzazione di un immaginario passato: si tratta di una riflessione rivolta alle decorazioni che rivestono le macchine da gioco come traccia di un’epoca caratterizzata dal boom economico e da una simbologia peculiare fatta di colori accessi e miti americani di una generazione passata, dalle pin up alla conquista dello spazio. Lo slancio dell’autore verso l’ambiguità della realtà e la sua rappresentazione inizia con la fagocitazione attraverso la serie fotografica e si sviluppa, in questa sede, con il cortometraggio Site specific_Las Vegas 05 che esalta l’artefatta città americana in un’inedita prospettiva aerea, combinando l’utilizzo del banco ottico e la pellicola cinematografica.
Non a caso all’interno del medesimo spazio espositivo incontriamo il progetto fotografico di Daniel Faust che si concentra nuovamente sulla patria del gioco per eccellenza: Las Vegas. Il lavoro fotografico di Faust rientra nell’area di indagine del gioco come dispositivo spaziale e quale spazio del gioco più di Las Vegas accomuna il nostro immaginario come luogo deputato all’eccesso nei confronti del gioco d’azzardo? Faust esplora la capitale dei casinò per 20 anni e tale cronologia si rivela nel mosaico fotografico proposto in occasione di Foto/Industria. Ogni singolo dettaglio fa parte di un insieme più grande, si assiste a una sorta di composizione musicale – come afferma lo stesso fotografo – scandita su elementi costitutivi che si ripetono, si alternano: edifici bizzarri, stanze kitsch e dal lusso ostentato, costumi sgargianti, cappelle per le veloci promesse d’amore, insegne e luci folgoranti.
D’altronde lo spazio del gioco è necessario costruirlo, inventarlo, predisporlo e se Las Vegas pullula di contraddizioni squisitamente americane e capitaliste, i parchi gioco per bambini rappresentano la dimensione più spontanea. Linda Fregni Nagler si concentra proprio sui parchi gioco con il suo lavoro Playgrounds esposto presso Palazzo Boncompagni. Iniziato a New York e proseguito in Italia, Playgrounds ci mostra l’aspetto surreale dei parchi gioco ripresi di notte, quando sono chiusi e non vi è traccia di bambini e bambine intente a divertirsi. Vi è, invece, un’atmosfera spettrale e misteriosa che evidenzia le installazioni, ma il contesto rimane celato. Potrebbero essere strutture abbandonate, potrebbero essere in funzione di giorno oppure appartenere ad un tempo altro. In questo senso, l’autrice investiga il mezzo fotografico la cui potenzialità intrinseca è quella di trasformare il soggetto prescelto o far vedere quello che altrimenti non sarebbe visibile.
I sopiti parchi gioco, privati di colore e vivacità di cui si caratterizzano, vengono ripresi con la minima luce e una posa estremamente lunga, omaggiando e ricordando la strada di Parigi svuotata di passanti del pioniere Louis Daguerre il quale fotografò in pieno giorno, ma i lunghi tempi di registrazione non permettevano di cogliere alcun soggetto in movimento. «Come era ingegnoso, freddo e oscuro il parco gioco […]», scriveva Ray Bradbury in The Playground (1953) con gli occhi di un uomo solo e spaventato, sensazione che si combina qui all’immaginario persistente e edulcorato dell’area gioco.
In un tempo dichiaratamente lontano ci portano i lavori fotografici Berlin Funfair di Heinrich Zille presso Casa Saraceni. Nei primi del novecento le fiere di svago intrattenevano i berlinesi che vediamo inquadrati in totale genuinità, non curanti di pose goffe e maldestre, immersi e assorbiti dalla confusione di teatranti e giostrai. L’attenzione per i dettagli futili, il disordine e i rifiuti in queste fotografie scattate fisicamente di pancia e ritrovate solo trentasette anni dopo la morte dell’artista – i negativi sono stati ingranditi dal fotografo Michael Schmidt – si distinguono notevolmente dal genere fotografico dell’epoca tanto da aver suggestionato artisti come Jeff Wall.
Sulla falsariga della visualizzazione del gioco come motore di spontaneità esistenziale e, allo stesso tempo, di formazione identitaria, si situa l’approfondimento del gioco come dispositivo sociale. Presso la Biblioteca d’arte e di storia di San Giorgio in Poggiale La salle de classe di Hicham Benhoud raccoglie un esperimento dell’autore, già insegnante d’arte in una scuola di Marrakech, pronto a superare la rigidità e i limiti imposti all’interno istituzioni scolastiche. L’autore sprona i propri studenti a giocare liberamente e quanto succede in classe diviene il soggetto delle sue fotografie. I ragazzi e le ragazze realizziamo manualmente dispositivi vari (maschere, totem, scenografie) con materiale povero che permettono loro di evadere fisicamente e mentalmente, innescando una piccola rivoluzione interna che crea legami, amicizia e consapevolezze altre, non dettate o imposte.
Danielle “Ebonix” Ugogaranya svela i risvolti digitali della ricerca di una propria identità con Seeing me Seeing you Seeing us. Consapevole di una lacuna all’interno dell’industria del videogame e, in particolare, del più famoso videogioco The Sims, l’artista realizza nuovi inediti avatar differenziati in cui gli utenti possono identificarsi, ampliando così, lo spettro di ridefinizione di identità all’interno del simulatore di vita.
A divertirsi in uno scambio reciproco di ruoli e contesti, sono sicuramente stati i protagonisti del progetto di Erik Kessels, Carlo e Luciana. Presso Palazzo Magnani le fotografie in bianco e nero, e quelle a colori dopo, tracciano la vita di due coniugi di Vignola che per tutta la loro relazione hanno perpetuato il gioco del fotografarsi a vicenda – di rado in coppia – rivestendo reciprocamente i panni del fotografo e del fotografato nei contesti più disparati dei loro viaggi. La fotografia come gioco per la coppia del modenese e nondimeno per Kessels il quale non è un fotografo tradizionale, piuttosto un ecologista dell’immagine che va alla continua ricerca del già prodotto fra l’indefinibile quantità di immagini preesistenti di cui l’autore si appropria per rileggerle in una nuova prospettiva.
L’approfondimento del gioco come dispositivo per l’invenzione della realtà, infine, introduce ricerche visive – e le implicazioni socio-culturali connesse – se vogliamo ancora più contemporanee, basate sui complessi sviluppi che il mezzo fotografico e la tecnologia stanno tuttora attraversando. Di fatto differenti lavori di Andreas Gursky, a partire dagli anni novanta e presenti nella sua antologica Visual space of today presso la sede del MAST (ve ne abbiamo parlato qui) , si aprono alla manipolazione digitale definendo una linea sottile fra la distinzione del dato oggettivo e l’immagine.
E se tale distinzione diviene sempre meno definibile cosa può succedere, dunque, in una realtà parallela? Reality or not di Cécile B. Evans, presentata presso il Mambo per la prima volta in occasione della biennale, amplia la ricerca dell’artista che riflette sul portato politico, sociale, filosofico e culturale dei vari livelli di realtà in cui siamo immersi. La video installazione racconta di un gruppo di studenti della periferia parigina invitati a partecipare a un reality show con la possibilità di modificarne la realtà interna. Ecco che si innescano una serie di strutture e sovrastrutture mirate ad enfatizzare la criticità della distinzione di mondo reale e molteplici mondi virtuali.
I risvolti tecnologici riguardano allo stesso modo le immagini prodotte dalle macchine per altre macchine. L’unica collettiva di questa edizione presso l’Ex chiesa di San Mattia propone i lavori del master di fotografia ECAL/University of Art and Design, Lausanne, che esplorano l’evoluzione dell’immagine digitale e il ruolo attuale del fotografo.
Automaed Photography destruttura tre punti di riflessione fondamentali che riguardano l’automazione dei sistemi di acquisizione (smartphone, droni, satelliti), la creazione di immagini senza macchina fotografica (IA, CGI, videogiochi) e l’automazione dell’elaborazione e distribuzione delle immagini (networked images, machine learning) e ne mostra i risvolti visivi, e già concreti, di un realtà sempre più computazionale che mette in discussione la presenza e l’autorialità umana.
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