E per fortuna che nel mondo dell’arte contemporanea ci sono anche interessi diversi da quelli che portano a risultati tipo l’aggiudicazione di Rabbit, coniglietto in acciaio con la forma di un palloncino, a 91,1 milioni di dollari. Autore Jeff Koons (ex broker); acquirente il gallerista Robert Mnuchin (ex finanziere in Goldman Sachs); asta Christie’s, New York, maggio 2019.
E per fortuna che tra le imprese europee non si fa strada solo la tendenza a inviare come riciclabili, in Paesi-discarica, rifiuti che in realtà sono scarti contaminati. La Fondazione MAST in Bologna, manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia, nasce come struttura di servizi per le imprese del gruppo COESIA di cui Isabella Seràgnoli, imprenditrice e collezionista d’arte contemporanea, detiene il 100/100 della proprietà. Ma in realtà MAST produce cultura per tutti, e con rara capacità progettuale è disponibile sia a recepire le istanze del territorio di nascita che a diffondere la conoscenza di situazioni planetarie. Aperto gratuitamente al pubblico, che gode, in questo luogo avveniristico e al contempo legato ai valori e alla storia della manifattura, di visite guidate sapienti, di laboratori, di progetti che spaziano dalla letteratura al cinema, MAST organizza soprattutto mostre di fotografia che verte sulla rappresentazione del mondo del lavoro e dell’industria nelle sue tappe storiche ed evolutive.
“ANTHROPOCENE”, che chiuderà il 5 Gennaio, è sicuramente la più curiosa tra le esposizioni fin qui realizzate da Urs Stahel, curatore delle collezioni. Perché ci racconta come la distruzione del Pianeta sia frutto anch’esso di lavoro e di tecnica, ma progrediti all’insegna d’illimitata ingordigia e di spropositata ignoranza. I tre artisti autori della mostra, Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal, Nicholas De Pencier, sulla base della ricerca del gruppo internazionale di scienziati Anthropocene Working group, presentano fotografie, murales ad alta risoluzione, videoinstallazioni HD, installazioni di realtà aumentata, al fine di renderci visibili le spoglie della Terra. La morte delle ultime barriere coralline, l’ultimo rinoceronte bianco esistente al mondo, la giungla della Malaysia sbaragliata dalle piantagioni di palme da olio, le immense distese di plastica nella discarica a cielo aperto di Dandora in Kenya. Da queste come dalle altre immagini nascono molteplici meditazioni. Sulla stupidità umana innanzi a tutto. Ma anche sul linguaggio fotografico che in questo caso la veicola e ce la porge nei suoi risvolti più ignobili.
Alcune considerazioni in tal senso. Molte di queste immagini sono prive di presenze umane, come se l’Uomo fosse già sparito dalla Terra e le foto fossero state eseguite da extraterrestri. Una scelta linguistica innaturale che sottrae allo spettatore quel tanto di realtà che qui più che mai farebbe bene alla salute (inutile a tale proposito la “realtà aumentata”, che fa tanto spettacolo e che in realtà aumenta un bel niente). Come pure, credo darebbe una sberla potente guardare la rovina del Pianeta non rivestita di cotanta “bellezza”. Se c’è un motivo comune, che trovo fastidioso, in questa mostra, è la “bellezza” della distruzione. Niente di nuovo ovviamente, se pensiamo alla tiritera che dovemmo sorbirci davanti alle immagini “estetiche” degli aerei che entravano nelle Torri Gemelle a Manhattan, o se pensiamo a fotografie celebri come Il Bombardamento su Mosca di Dorothea Lange. Motivi di riflessione, dicevo. Ed è questa la valenza davvero preziosa di questa mostra, procedendo tra le sue immagini ci si pone molte domande, e s’ipotizzano alcune risposte. Come il rogo ordinato dal Presidente Kenyatta, in Kenia, delle zanne d’avorio confiscate ai bracconieri nel 2016. Una metafora della nostra Apocalisse, un’opposizione tragica e potente alla considerazione della Natura come mera fonte di potere economico, non certo di bellezza e d’insegnamento spirituale.
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