Suddivisa in sei sale, l’eccellente selezione di 150 fotografie – svolta tra gli oltre centomila negativi conservati nella Médiathèque du Patrimoine et de la Photographie di Parigi (MPP) – in mostra da Camera Centro Italiano per la fotografia di Torino, ripercorre le principali tappe biografiche del grande fotografo André Kertész. Con mostre al MoMAa, nonché la partecipazione alla 32ma Biennale di Venezia, autodidatta e deciso sostenitore del connazionale Endre Erno Friedmann, al secolo Robert Capa, allorquando, nel 1933, raggiunse la Ville Lumière, a cui indica come utilizzare il flash; insegnante di Brassaï, su come fotografare di notte; maestro putativo di Henri Cartier-Bresson, André Kertész – nato a Budapest nel 1894 e morto a New York nel 1985 -, neanche ventenne si avvicinò alla fotografia, acquistando, nel 1912, con i primi guadagni come impiegato alla Borsa di Budapest, una ICA 4.5×6 (per sostituirla anni dopo con una Leica) senza mai abbandonarla.
L’antologica, significativamente titolata l’opera 1912-1982, organizzata da Camera e dal MPP, curata da Matthieu Rivallin e da Walter Guadagnini, egregiamente attesta come si sia dedicato a essa per l’intero arco della sua vita: malato e confinato in casa, continuò a fotografare dalla finestra di casa. E nel 1981, raccolse queste foto nel libro From my Window, dedicato alla sua adorata Elisabeth, moglie morta nel 1977.
L’esposizione, oltre a rendere evidenti le sue varie fasi biografiche e creative, fa respirare a pieni polmoni le atmosfere delle diverse dimensioni sociali e culturali delle città che ha attraversato o in cui ha vissuto, comprese le lente trasformazioni urbanistiche e antropologiche. Foto dopo foto, si afferra la sua grande capacità di eternare quel momento determinante che Cartier-Bresson tradurrà nell’importanza di cogliere l’attimo, l’istante decisivo. È nota, quasi superfluo rammentarla, l’affermazione del pioniere del fotogiornalismo francese che asseriva che «Tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l’ha fatto prima». Unanimemente a Kertész è riconosciuta la singolare capacità di cogliere bellezza e poesia nascoste nelle cose comuni perché «Fotografo il quotidiano della vita, quello che poteva sembrar banale […] amo scattare quel che merita di essere fotografato, il mondo quindi, anche nei suoi squarci di umile monotonia».
Giunto a Parigi nel 1925, con questo suo modo di fotografare la città, insieme a Cartier-Bresson, Doisneau e Brassaï, ha definitivamente dato avvio a una stagione d’oro della capitale francese che si è protratta fin dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, Kertész inizia fotografando tutto quello che ha intorno: uomini, animali, la sua casa, le ombre, i contadini, gli amici, i familiari, i paesaggi, come su un quaderno di appunti. E, quando, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914, viene arruolato nell’esercito austro-ungarico, porta con sé la macchina fotografica e, attraverso le foto, racconta la vita al fronte, quella lontana dai campi di battaglia, riprendendo i soldati durante momenti privati, mentre si radono il viso o suonano o si tuffano in piscina (sala 2).
Risale a questi anni Uomo che nuota sott’acqua (1917) che, oltre a evocare immediatamente David Hockney, anticipa la serie delle Distorsioni della sala 5: nudi femminili delle due modelle, Hajinskaya Verackhatz e Nadia Kasine, ripresi davanti agli specchi deformanti del luna park all’interno del suo studio, realizzati per riempire le cinque pagine della rivista umoristica Le Sourire.
Dopo la prima sala “introduttiva”, che mira a mettere in evidenza una pratica che il fotografo non ha mai lasciato: quella di ritrarre se stesso, come quella di fotografare la moglie Elisabeth, conosciuta in Ungheria e sposata a Parigi, inizia il racconto biografico/artistico del fotografo.
L’effervescente atmosfera parigina di quegli anni è descritta con gli scatti realizzati a quella comunità di artisti protagonisti della vita intellettuale della capitale francese (sala 3): Man Ray, Germaine Krull, Piet Mondrian, Sergej Éjzenštejn, Kiki de Montparnasse, Ossip Zadkine, solo per citarne alcuni. Sono proprio gli scatti realizzati nella casa-studio del fondatore del neoplasticismo (A casa di Mondrian, Gli occhiali di Mondrian), che perfettamente e profondamente sintetizzano il pensiero di Kertész, perché quel tavolino con gli occhiali, quel vaso con i fiori, quel tratto di scala, attestano l’intimità e, soprattutto, quella sua attenzione al banale sublimato a poesia. Ma è anche raccontata attraverso il ritratto della città (sala 4), che passa dai luoghi iconici a quelli più popolari, con sorprendenti visioni dall’alto, fin quasi surrealiste, come lo splendido Pittore d’ombra. Nell’ultima sala, infine, è esposta la fase finale della vita del grande fotografo. Quando nel 1936 si trasferisce a New York è folgorato dai nuovi stili di vita, dalle nuove architetture, con i suoi sorprendenti panorami e gli scatti del Porto di New York raccontano mille piccole storie.
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