Dopo mesi di attesa, la Fondazione Louis Vuitton riapre e lo fa con stile. A ridare il via alle danze è la fotografa americana Cindy Sherman, prima artista vivente – e piuttosto giovane – ad ottenere una retrospettiva negli spazi arzigogolati e bellissimi firmati Frank Gehry della Fondazione. Programmata per aprile e rinviata a settembre, “Cindy Sherman à la Fondation” – fino al 3 gennaio 2021 – è la prima grande mostra dedicata alla fotografa in Francia, dopo la mostra al Jeu de Paume nel 2006. L’esposizione riunisce 170 opere, realizzate dal 1975 ai giorni nostri, dalle serie di immagini celebri, come Untitled film stills, passando per Clowns, Flappers, History Portraits fino alle serie inedita in cui i protagonisti sono figure dalla mascolinità volutamente ambigua.
Sarà che è strano vedere così tante persone riunite di nuovo in un solo spazio, sarà per i colori al limite del kitsch (rosa, blu, grigio) ma la mostra sembra affollata, ed a riempirla non sono solo i visitatori ma degli strani personaggi che si moltiplicano grazie al gioco degli specchi, posti ad ogni sezione, creando una scenografia ludica ed intenzionalmente introspettiva. La scenografia, che sembra fare eco all’installazione di vetri luminosi e specchi di Olafur Eliasson nello spazio esterno della fondazione, è abbagliante.
La mostra comincia con la prima e più celebre serie di immagini Untitled film stills (1977-1980), fotografie in bianco e nero nelle quali l’artista interpreta i ruoli affidati alla donna nel cinema (una segretaria, una star del cinema etc.). Con questi sublimi e semplici scatti, in cui le protagoniste sembrano adottare delle pose quasi spontanee, la fotografa comincia la sua carriera.
Seguono le Rear screen projections (1980), tecnica cinematografica cara ad Alfred Hitchcock, immagini che segnano il passaggio alla fotografia a colori. E poi, senza seguire un percorso cronologico, inizia una grande galleria degli orrori, le cui figure sembrano uscite da un film di David Lynch. Sotto gli sguardi scomodi della serie Flappers (2016-2018), il visitatore si sente in soggezione. Originariamente figlie della Hollywood dell’epoca d’oro, queste figure femminili, icone di altri tempi, sono imprigionate in un’atmosfera di decadenza. Con Flappers, la fotografa torna, quarant’anni dopo i primi film stills, ad attingere i suoi personaggi dal mondo del cinema, questa volta facendo ricorso alla fotografia digitale, già impiegata nella serie Clowns (2003-2004). Ad ogni passo, il visitatore scopre un’altra Cindy Sherman. Più ironica ed eccessiva, più Sherman incontra il consenso del pubblico ed il successo.
Donna dai mille volti e mille costumi, Cindy Sherman, durante più di quarant’anni di carriera, ha indossato i panni di donna borghese, di uomini, di bambina, di terribili clown, della Madonna, di matrone, etc. Considerata come icona dell’arte contemporanea, Sherman è l’iniziatrice della fotografia performativa. Figlia del post-modernismo americano, si dedica alla fotografia concettuale a partire dagli anni settanta e lo fa nel modo più semplice ed accessibile; prendendo ispirazione da tutto quello che la circonda, televisione, cinema, riviste raffiguranti icone popolari, l’artista interpreta la donna attraverso gli stereotipi che le sono attribuiti. Appropriandosi della visione maschilista della donna come puro oggetto sessuale, la fotografa americana l’interpreta in prima persona con intento parodistico cercando di suscitare l’effetto catartico.
Privilegiando il lavoro in serie, ognuna intorno ad una tematica ben precisa, Cindy Sherman crea, attraverso sequenze d’immagini come fossero fotogrammi di una pellicola cinematografica, una narrazione filmica. Semplici immagini di donne, le fotografie di Sherman non permettono una lettura più profonda dei personaggi. Truccate, travestite e trasformate fino all’eccesso, queste figure sono maschere, clichés impenetrabili, seducenti ed allo stesso tempo inquietanti. Sempre la stessa eppure sempre diversa, Cindy Sherman interpreta tutti questi personaggi giocando con la sua immagine e facendo del travestimento un’arte: messa in scena, performance, trasformismo sono le basi del suo lavoro artistico che rendono irriconoscibile uno dei volti più visti dell’arte contemporanea. Prendendo in prestito i codici del cinema, del teatro, della moda e dei media, l’artista interpreta tutte le donne possibili, senza esserne nessuna. Ritratti e mai autoritratti, anche nell’inedita serie di immagini prese dal suo Instagram e stampate su enormi tappeti, le sue fotografie hanno spesso numeri come titoli, ad indicare una galleria d’immagini di cera senza fine, volutamente non estetiche contrariamente al concetto di “selfy”. Attrice ed allo stesso tempo creatrice, Sherman gioca sull’ambiguità narrativa delle sue fotografie ed esplora i concetti di identità e di trasformazione dell’individuo nella cultura contemporanea. Contro i clichés, le fotografa americana è una persona, termine latino per indicare la maschera utilizzata dagli attori teatrali per dare all’attore le sembianze del personaggio interpretato ma allo stesso tempo per permettere di amplificare il suono della voce perché sia udibile da tutti gli spettatori. D’altronde queste immagini non sono altro che proclamazioni silenziose di un processo di straniamento evidente. Ma quanti stereotipi esistono? #613 secondo il titolo di una delle ultime immagini prodotte ed esposte all’occasione di questa grande retrospettiva.
Negli anni Sherman ha moltiplicato gli scatti e le sperimentazioni, eppure sotto gli occhi del visitatore, la vera essenza dell’artista resta inafferrabile e sembra disintegrarsi piano piano ad ogni sguardo, lasciando un’immagine sempre più vuota. Ma chi è veramente Cindy Sherman? Alcuni pensano di intravedere la vera essenza dell’artista nella serie Pink Robes & color studies (1982), eppure anche qui si tratta di un gioco. Alla fine come lo indica la stessa artista nel suo Cindy Book (1964-1975) sotto ogni immagine “that’s me”
A fare eco al lavoro della fotografa americana, la fondazione propone Crossing views, un poetico ed interessante dialogo sulla ritrattistica con più di sessanta opere della collezione, molte delle quali sono visibili al pubblico per la prima volta. Artisti internazionali, tra cui la stessa Cindy Sherman, e francesi approfondiscono questa tematica attraverso differenti approcci e tecniche: pittura, video, installazione, fotografie, etc.
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