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Circulation(s) al 104 di Parigi: focus sull’immagine filmica e fotografica
Fotografia
Luogo essenziale della vita culturale parigina, il Centquatre accoglie “Project Room” di Clément Cogitore e “Circulation(s)”, il festival europeo dedicato alla fotografia emergente, fino al 29 maggio. Situato nel nord-est parigino e diretto da José-Manuel Gonçalvès, il 104 offre una duplice proposta accolta in uno spazio dedicato alla creazione emergente, alla produzione e divulgazione di ogni espressione artistica.
Clément Cogitore in “Project Room” rivela la seduzione del quotidiano con cinque video realizzati in anni diversi, e qui proiettati al contempo e in loop in un’unica sala; la miscela di suoni e immagini diversi restituisce una sorta di poesia estemporanea. Si va dalla luminosità degli schermi telefonici di Élégies, ai dipinti di Lascaux, fino a inseguire un camion lungo un’autostrada in Travel(ing).
Circulation(s), per la sua dodicesima edizione, presenta 30 artisti di 15 nazionalità diverse e un focus sulla scena artistica armena. Lungo duemila metri quadrati si possono scoprire le nuove tendenze e decifrare la fotografia di domani. Ideatore e organizzatore del festival “Circulation(s)”, Fetart ha preso quest’anno la direzione artistica con dieci curatori indipendenti specializzati nella fotografia emergente. Dopo Romania, Bielorussia e Portogallo, è la volta dell’Armenia con i lavori di quattro artisti, quali Areg Balayan, Vaghinak Ghazaryan, Karen Khachaturov e Sona Mnatsakanyan.
Bravi e originali, gli artisti italiani selezionati propongono progetti fotografici tra realtà e finzione, come per “Travel Without Moving” di Federico Ciamei. Qui l’artista traccia un itinerario fittizio arricchito da leggende di mercanti e missionari. Un clin d’œil a Marco Polo, in questo lavoro che fa vacillare le convinzioni di un mondo notoriamente già tutto esplorato. “Shine Heroes” di Federico Estol è un progetto triennale sugli oltre tremila lustrascarpe che percorrono le strade di La Paz e di El Alto. Discriminati, questi usano passamontagna per non essere riconosciuti. Estol ha collaborato con 60 di questi lavoratori anonimi, associati all’ONG Hormigón Armado, per realizzare delle graphic novel. Sullo sfondo dell’architettura di El Alto, i passamontagna diventano le maschere di eroi “dello splendore”, appunto. Il risultato è un libro fotografico firmato anche dai lustrascarpe e il cui ricavato serve a combattere la discriminazione sociale.
Artista che ha esposto di recente al museo MAXXI di Roma, Rachele Maistrello presenta “Diamante Verde”. Si tratta di una serie fotografica, tra realtà e fantascienza, che narra di un’azienda high-tech cinese che, negli anni ’90, produceva microchip elettronici in grado di ricreare nel corpo umano sensazioni associate all’esperienza della natura. Grazie alla ricostruzione fittizia di archivi, Maistrello mette in scena una storia che destabilizza il linguaggio fotografico. Silvia Rosi presenta “Encounter”, una serie di video e fotografie. L’abbiamo incontrata per saperne di più sul suo lavoro.
Il tuo progetto esplora storie di identità e di migrazione della diaspora attraverso l’autoritratto, la teatralità e il simbolismo. Ce ne parli?
«È un progetto autobiografico. È la narrazione del percorso migratorio dei miei genitori dal Togo all’Italia, attraverso il gesto del trasporto degli oggetti sul capo. Una tecnica tradizionalmente tramandata di madre in figlia, che non è arrivata fino a me a causa della migrazione. L’ho vista fare al mercato Asigame a Lomé, dove mia madre lavorava prima di trasferirsi in Italia, e prima di lei mia nonna. Prendo spunto da questo gesto per parlare di come la tradizione è qualcosa che viene facilmente persa nel momento in cui si transita da un posto all’altro».
Questa pratica è ancora presente in Togo?
«Il trasporto degli oggetti sulla testa è una pratica che si vede anche tra i giovani delle zone rurali e urbane. È un modo ingegnoso di distribuire il peso sul corpo. Degli studi asseriscono che si possono trasportare fino al venti per cento del proprio peso corporeo senza utilizzare nessuna energia».
Perché l’autoritratto?
«Per me è una cosa spontanea. È il processo più semplice in quanto parlo della mia famiglia, reinterpreto i miei genitori. Sono la persona che più gli somiglia, dunque utilizzare me stessa è naturale».
Nelle tue foto ti riappropri dei codici tradizionali dei ritratti in studio dell’Africa occidentale. Mi viene in mente Samuel Fosso, ma mentre il suo lavoro esplora identità e situazioni diverse, il tuo lavoro si focalizza sull’ambito familiare. Non è così?
«Sì, è come un esercizio della memoria in cui si vanno a ripescare immagini vecchie. Per quanto ci siano affinità con il suo lavoro e che i miei genitori si siano fatti ritrarre in studi fotografici come quelli di Fosso, io cerco di fare il processo inverso. Negli album di famiglia tendiamo a catturare i momenti più belli, così è per lo studio fotografico, mentre io colgo momenti che magari non sono felici, come l’immagine di mio padre con i pomodori. Mio padre raccoglieva i pomodori nel sud dell’Italia, nonostante venisse da un famiglia di media borghesia e avesse studiato. Non ho mai conosciuto più padre, ho costruito la sua immagine in base ai racconti di mia madre. È una ricostruzione fittizia di qualcosa che è reale».
Sono foto che sarebbero potute esistere, dunque.
«Non uso il mezzo fotografico per appropriarmi della realtà, ma sono immagini che fanno riferimento a fatti reali e che hanno molto a che fare con l’identità dell’individuo. Per me è fondamentale ricreare aspetti della vita familiare che non sono sempre mostrati. La costruzione reale è l’immagine, tutto quello che questa racconta è successo, è vero».