C’era un ragazzo che amava (non solo) i Beatles e i Rolling Stones, ma anche i Depeche Mode, gli U2, i Joy Division…Quel ragazzo è Anton Corbjin (Strijen, Olanda, 1955), oggi artista e regista internazionale. A 17 anni ha iniziato a “fotografare la musica” grazie al padre, che gli prestò la macchina fotografica a un concerto, al giornale locale, che pubblicò lo scatto della band, e a Sergio Leone. «Sono nato in una piccola isola dove non c’era molta musica e ho iniziato a guardarmi intorno», racconta Corbjin in dialogo con Walter Guadagnini, curatore di una sua personale negli spazi della Fondazione E.ART.H. da Eataly Art House di Verona.
«Bono Vox dice che sono interessato all’assurdo: forse parla di se stesso!». Più che altro è il mistero che catalizza l’attenzione del giovane Corbjin, quell’aura che avvolgeva i musicisti e gli artisti nell’epoca in cui la comunicazione di massa era solo all’inizio. «Ancor più dei front man o di un solista, la cui immagine è nota al grande pubblico, il mio interesse per gli artisti nasce proprio dal fatto che spesso si conoscano le loro opere ma non che faccia abbiano», sottolinea Corbjin.
«In mostra ad Eataly Art House abbiamo scelto due dei tre maggiori cicli dell’artista», precisa Guadagnini. «C’è il primo periodo in bianco e nero, con le foto dei musicisti senza strumenti, e degli artisti, sempre in posa, o mascherati: da cui il titolo Staged. C’è poi la Blue Series, quella in cui il filtro blu degli scatti di Kylie Minogue o di altre star viene aggiunto per ottenere un effetto quasi evanescente, da paparazzo con in mano una semplice Polaroid». Un modo per ricreare quel mistero che la sovraesposizione dei rotocalchi e dei social ha sottratto ai divi.
«Vi sono una connotazione ludica e una molto seria nei miei ritratti – chiarisce l’artista olandese -, per esempio, i soggetti sono soprattutto persone che hanno lottato per diventare chi sono, come ho fatto io, per trovare la mia strada». In Staged, il travestitismo dei musicisti (Mick Jagger in abiti da lady, i Depeche Mode con barba ottocentesca, gli U2 con i loro padri come alter ego), si somma a quello dello stesso Anton nella sezione A.Something, in cui è Corbjin a indossare i panni di John Lennon o Janis Joplin. «Ho iniziato a rappresentare i musicisti dopo la loro scomparsa – prosegue il fotografo – perché amo la vita e per il senso di continuità dopo la morte in cui credevano i miei genitori».
Alla domanda su chi siano stati i suoi maestri Corbjin ha risposto: «Inizialmente sono stato influenzato dai fotografi delle cover dei dischi, come Michael Cooper [sua la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles del 1967, ndr], poi da Robert Frank e Diane Arbus. Tra i pittori amo molto Cy Twombly e Anselm Kiefer, ma non so se mi abbiano influenzato come artista».
Non manca un legame con il nostro Paese, in particolare nella carriera da regista, affiancata a quella di fotografo, in cui afferma sia stato fondamentale Sergio Leone. Dopo l’esordio del 2007 con Control, ancora inestricabilmente legato alla musica (la pellicola narra infatti la tragica storia di Ian Curtis cantante dei Joy Division, morto suicida a 23 anni, nel 1980, all’apice del successo), The American (2010), con protagonista George Clooney, è girato in Italia, oltre ad annoverare nel cast Violante Placido, Filippo Timi e Anna Foglietta. «Ho passato tre mesi in un paesino dell’Abruzzo [in cui il killer Clooney si rifugia ormai stanco e braccato, ndr]. È stata una bellissima esperienza. Come quando mi sono trasferito in Inghilterra per il primo film. Ho seguito l’istinto. Non sono un fotografo stanziale, mi piace girare, così ogni foto mi ricorda un momento e un luogo in particolare».
Corbjin si definisce anche un tradizionalista utilizzatore di macchine analogiche, come la Hasselblad. «Anche se negli ultimi due anni fotografo solo con il mio iPhone – chiosa – è veloce e comodo. Con lo smartphone rivelo la mia vita più intima, ad esempio fotografo la mia fidanzata, che oggi è diventata mia moglie».
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