Categorie: Fotografia

Cuba. La vita, l’identità, il mito

di - 26 Novembre 2019

Non riuscivo a farmi un’idea precisa di Cuba. Certo: Fidel Castro e la sua morte, lo strazio vero o presunto di milioni di persone al suo funerale; la rivoluzione, Che Guevara nella foto di Alberto Korda e poi…ah sì, sempre Fidel che esce in pubblico con le orribili felpe dei marchi sportivi occidentali, i palazzi coloniali colorati dell’Avana, il Buena Vista Social Club nel film di Wim Wenders, i resort a Cayo Largo, o a Varadero. L’embargo che chi non l’ha vissuto non può nemmeno immaginarlo, la “fiesta cubana”, i ragazzi di Cuba. La bandiera di Cuba. Tania Bruguera e le sue lotte. L’arte cubana. Però, insomma, tutto finiva lì.

“Vai a Cuba il prima possibile, prima che cambi tutto, prima che diventi un nuovo stato degli Stati Uniti, prima che diventi un’isola della Florida”. “Vai a Cuba prima che sia troppo tardi”. “Vai a Cuba, vedrai come ti diverti”. “Ah, Cuba”. Mi sono sentito ripetere.

Mi piacerebbe sapere come era “diversa” Cuba. C’erano più Chevrolet, più Buick, più Lada che ora cadono a pezzi e producono un inquinamento degno di una portaerei? Le case erano al loro posto anziché essere abbandonate al cielo e ai ratti? O forse nei tuguri dove gli habaneros vivono si respirava più dignità durante la rivoluzione e il regno di Castro, unica voce che ancora si sente sull’isola?

Immagino sicuramente che l’isola, prima, fosse più innocente, nel senso pasoliniano del termine. Nel senso che il ragazzetto che mi chiede la mia maglietta in regalo a Santiago de Cuba in un’altra epoca non l’avrebbe rifiutata perché no tiene logo.

Andiamo a Cuba e basta, ho pensato. Tanto, in tutti i modi, sarà mitico. Qualunque viaggio, per chi lo vive, probabilmente è mitico, ma qui si tratta proprio di esplorare l’isola del tesoro, e dell’isolamento; l’immaginario che questa terra a forma di coccodrillo muove ancora nella cultura occidentale.

Ho pensato che Cuba non fosse un posto “normale” mentre scendevo dall’aereo, entrando attraverso il finger nell’area degli arrivi dell’aeroporto. Dall’alto, nei minuti prima dell’atterraggio, solo giungla e nuvole raso terra. Nessuna spiaggia, nessuna casa, nessuno skyline. Quello che mi ha colpito immediatamente, dell’aeroporto José Martí dell’Avana, è stato il suo muro di cinta. Non reti metalliche e filo spinato, come in qualunque scalo “moderno”, ma un vero e proprio muro bianco dalla sommità azzurra; un muro sgarruppato, ferito e inverdito dall’umidità, dal tempo e dalla salsedine. Il muro di un carcere più che di un aeroporto. Al José Martí l’area immigrazione non ha nastri mobili per il contenimento della folla che arriva e per la sua disposizione in file ordinate; non ha transenne, non ha schermi protettivi, non ha niente. Non ci sono pubblicità, non ci sono inservienti che puliscono pavimenti lucidi, non ci sono gli addetti allo “smistamento”. Basta annusare l’aria per capire che si è appena arrivati in un luogo che sembra esistere poco. L’odore non è di quelli che credo di riconoscere in un aeroporto qualsiasi: è antico.

Poi La Habana, specchio della catastrofe senza soluzione di continuità, se si esclude qualche vicolo nella zona Vieja, quella accanto al porto, terra dei primi insediamenti e degli ultimi turisti.

Per chilometri, fino al Vedado e poi a Miramar, i due quartieri-bene dove hanno sede anche le ambasciate e le case della borghesia, La Habana è una infilata di palazzi sventrati, di muri bagnati, di fili elettrici in libertà, di buchi nei marciapiedi abbastanza larghi per nascondervi un paio di cadaveri, di voragini nelle strade, di rifiuti sparsi e cassonetti rovesciati, di odori profondi.

Diffidate da chi vi racconta di una Cuba esclusivamente fatta di sogni, drink e musica. Difficilmente sarà uscito da Varadero. Diffidate da chi vi parla frastornato di una popolazione perennemente allegra: non hanno mai parlato con un cubano che non sia impiegato nel turismo, o con qualcuno che gli abbia rivelato quanto realmente costa la vita per un cubano a Cuba, e a quanto ammontano gli stipendi, e quanto è forte la voglia di andarsene.

Carolina Sandretto, nel progetto “Cuba. Vivir con”, pubblicato in uno splendido volume edito da Silvana Editoriale è riuscita a restituirmi l’idea della Cuba che ho conosciuto. Quella dell’umanità. Degli incontri. Dei rimorchi. Delle raccomandazioni di chi, via via, mi ha accolto nella sua casa.

“Vivir con” non chiude gli occhi di fronte alla povertà e non “marcia” sulla questione della dignità.

Negli scatti di Sandretto rivedo Anita e Wilfriedo, splendidi ospiti del Centro Habana, che in due stanze con aria condizionata e un piccolo gabinetto ci hanno fatto sentire (quasi) subito a casa nostra. Intimandoci di non portare nessun cubano a far l’amore nei nostri letti.

Ho ritrovato Dari a Trinidad con il suo cagnolino Malù e i suoi bambini, Norma e i suoi occhi di nero truccati a Cienfuegos, e il nostro taxi a pedali che voleva a tutti i costi parlare in italiano per esercitarsi a essere più spigliato con i turisti e una contrattazione all’ultimo sangue che, dopo tutta la strada, le salite, le buche e tre esseri umani da trasportare con la sola forza della gambe, mi porta a lasciargli il doppio della cifra pattuita.

Ritrovo Magda e i suoi ninnoli, di nuovo a La Habana, il suo essere strabordante, eccessiva, e le sue frasi amare dette con allegria: “Sono pazza, l’unico modo per poter vivere qui” e José, il nostro oste a Cardénas scovato per caso – perché l’albergo prenotato non esisteva – con la sua casa ultra-kitsch, arredata secondo i più classici canoni del “Vizietto” europeo e nord-americano: vecchi orologi, poltrone comprate nei “supermercati” di stato, bomboniere, stampe, quadretti piccoli e grandi di rara bruttezza a fare il quadro perfetto con mattonelle di ceramica con stampe di prati e fiori, o quadrotti neri e porpora, degni di stanze di motel per vecchie puttane ingioiellate di bigiotteria e profumi dozzinali e grassi.

È un’immagine dolce quella che la mia mente mi rimanda ora, di Cuba. Quasi nostalgica. È un po’ come lasciarsi credere di sentire il rumore del mare in una conchiglia. Sarà la distanza.

“Cuba. Vivir con” mi riporta qui. Sulla soglia di una casa dove a volte il salone è quasi una dependance del marciapiede, e viceversa. O a quel Malècon dove il tramonto annulla ogni frizione della mente con la realtà.

Una presentazione del libro fotografico “Cuba. Vivir con” di Carolina Sandretto si è tenuto lo scorso mercoledì 23 ottobre da CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, Torino, e il prossimo appuntamento è alla Galleria Sozzani di Milano il 27 Novembre 2019, alle 19.

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