La fotografia non è certo un mezzo oggettivo, di questo erano perfettamente consapevoli sia Luciano D’Alessandro (Napoli, 1933 – 2016) che Sandro Becchetti (Roma 1935-Lugnano in Teverina 2013) nell’analizzare con uno sguardo altrettanto critico mezzo secolo di società italiana, restituendo attraverso le loro immagini la complessità di momenti che hanno a che fare con l’ordinario e lo straordinario. Due fotografi attivi uno a Napoli e l’altro a Roma profondamente diversi per formazione e modus operandi ma in un certo senso vicini. Intanto, perché appartengono alla stessa generazione che ha creduto nel cambiamento, osservando e documentando senza filtri ma sempre con grande partecipazione empatica gli “ultimi”, le ingiustizie, le proteste, le rivendicazioni sociali e anche, come nel caso di D’Alessandro, catastrofi che hanno sconvolto il Belpaese come il terremoto dell’Irpinia nel 1980 o il colera del ‘73 a Napoli. A loro è dedicato il duplice percorso espositivo (fino al 5 settembre) che si snoda nell’architettura seicentesca dell’ex convento carmelitano oggi Museo di Roma in Trastevere.
Le mostre sono promosse da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali in collaborazione con lo Studio Bibliografico Marini – Archivio Luciano D’Alessandro che ha prodotto Luciano D’Alessandro. “L’ultimo idealista” (a cura di Roberto Lacarbonara) con Zetema Progetto Cultura e l’Archivio Becchetti con il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia e il Sistema Museo di Perugia per “Chiamala Roma – Fotografie di Sandro Becchetti 1968-2013”, curata da Silvana Bonfili e Valentina Gregori. Entrambi i cataloghi sono editi da Postcart, la casa editrice romana che ha pubblicato altri libri di Becchetti che amava raccontare aneddoti non solo attraverso la fotografia.
“Chiamala Roma” è proprio un capitolo del saggio L’inganno del vero. Tracce di un percorso in soggettiva (pubblicato postumo nel 2015) in cui il fotografo ripercorre alcuni momenti del suo rapporto unico con la Città Eterna, a partire dagli esordi nel ’66. “Attraverso l’obiettivo delle mie Pentax osservai una città in tellurico sconvolgimento sociale e, direi, antropologico, segnata da un’ansia di rinnovamento capace di spaccare la gerarchia fossilizzata dalle classi sociali e di cancellare, nel mondo del lavoro e nella famiglia, un’antica idea di sudditanza alla quale le donne in particolare erano state relegate.”, scrive Becchetti. Questa sua acuta analisi del tessuto sociale si estrinseca con le inquadrature dei luoghi animati dalla gente, da quei ritratti catturati senza indugio. In primo piano anche i palazzoni delle borgate romane, le scritte antifasciste sui muri, i simboli di un’identità politica che non esiste più e anche i luoghi e i monumenti più iconici, primo fra tutti Campo de’ Fiori che Sandro Becchetti ha “bazzicato” per tutta la vita. Chi può dimenticare quel signore che parlava in romanaccio con la barba e il cappello sui capelli candidi, la borsa di Tolfa e la macchina fotografica al collo? Io me lo ricordo proprio così quando l’ho conosciuto all’inizio del nuovo millennio in prossimità della statua di Giordano Bruno. Un uomo ironico di una cultura raffinatissima che, come si vede anche in mostra nelle sezioni “Una mia idea di galleria” e “Lo sguardo gelido e tagliente del poeta”, amava leggere e dissertare con grandi intellettuali, poeti e scrittori, registi e attori che aveva ritratto soprattutto per Il Messaggero. Tra gli innumerevoli personaggi è presente Pier Paolo Pasolini insieme a Federico Fellini, Amos Oz, Sandro Penna, Natalia Ginzburg, Goffredo Parise, Carmelo Bene, Bernardo Bertolucci, Alberto Moravia.
Parlando, poi, del lavoro fotografico di Luciano D’Alessandro la prima cosa che si percepisce fin dai suoi primi lavori degli anni ’50 è l’approccio al reale con un’attitudine etica che è proprio all’opposto di una qualsivoglia interpretazione antropologica “spicciola”. La mostra, prima antologica dopo la retrospettiva del 2009 al Museo di Capodimonte di Napoli e, tra le altre, l’esposizione romana “Luciano D’Alessandro – Fotografie 1952-2002” promossa nel 2006 dagli Incontri Internazionali d’Arte a Villa Medici, presenta cinque momenti particolarmente significativi: “Gli esclusi”, “Dentro le Case”, “Dentro il lavoro”, “Colera a Napoli” e “Terremoto in Irpinia”. Impeccabile la ricerca filologica del curatore Roberto Lacarbonara condotta insieme allo Studio Bibliografico Marini-SBM (Valenzano e Roma) che dal dicembre 2017 si occupa della conservazione e della promozione dell’Archivio Luciano D’Alessandro che consta di circa 2500 stampe fotografiche, 80mila negativi in bianco e nero, 1000 diapositive a colori e altro materiale documentario e librario in corso di catalogazione e digitalizzazione.
Del grande fotoreporter napoletano, che come suggerisce il titolo stesso della mostra viene considerato l’“ultimo idealista”, non passa inosservato il modo in cui si relaziona con rispetto e comprensione a contesti diversi, che sia la fabbrica tessile a San Leucio, un’abitazione rurale pugliese o il Manicomio Materdomini a Nocera Superiore. Tra i suoi reportage più noti Dentro le case (1977) e Dentro il lavoro (1978) sono raccolti negli unici due volumi (dei dieci in programma) realizzati al fianco di Gianni Berengo Gardin. Ma è nelle immagini stridenti, ma mai esasperate nei contrasti chiaroscurali, della serie Gli Esclusi (1965-67) che emerge la forza e il potere della fotografia di D’Alessandro. Dopo un anno di frequentazione del manicomio di Nocera Superiore senza riuscire a scattare neanche una foto, il suo sguardo trova soprattutto nelle mani dei malati mentali l’essenza di un mondo invisibile. Il quadrettato dei camici che indossano diventa la texture di una gestualità che si ripete, la muta scenografia del dolore.
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