«Il compito non è tanto di vedere ciò che nessun altro ha ancora visto; ma pensare ciò che nessun altro ha ancora pensato, riguardo a quello che chiunque vede». Questa frase del fisico premio Nobel, Erwin Schrodinger, tra i fondatori della meccanica quantistica, ben si adatta al lavoro di Oliviero Toscani che con le sue fotografie ci ha svelato quello che ci stava accadendo intorno, mettendo in evidenza le crepe e rintracciando anche tracce di futuro. Il paragone può sembrare azzardato visti gli ambiti così differenti nei quali operavano, ma quello sguardo che va oltre le cose e crea altri mondi immaginari o no, che ci fanno capire il nostro, è trasversale. È il talento del genio? Non lo so di preciso, però di sicuro è quello di chi è in grado di cambiare i paradigmi e innescare una marcia diversa nei propri ambiti di azione, con una ricaduta sul presente e su ciò che potrà accadere. Ed è stata la missione di una vita per Toscani, perché per me di missione si trattava, dato il senso quasi sacro del suo ruolo di fotografo (e del fotografo), a cui attribuiva il compito di essere testimone del proprio tempo.
Lo ha dichiarato lui stesso nelle sue conferenze dove, con un tono che irritava molti, un po’ pontificatore, lanciava temi fondamentali sui quali riflettere, anche alcuni dimenticati come la responsabilità del proprio mestiere. Ma questa frase lo avvicina a Schrodinger. «Creatività è una conseguenza: qualcuno che non la pensa come gli altri fa una cosa e perché la fa solamente lui diventa il creativo. Il resto è fuffa». E Oliviero Toscani ci è riuscito. Oltre che un abile fotografo è stato un grande comunicatore, che ha attraversato i media, ci ha giocato con maestria per conoscere la sua contemporaneità. Per lui un fotografo era un fotografo, punto. «Non so se sono fotografo di moda o di reportage, o altro. Cosa sono “ste classificazioni”?…», ripeteva scocciato. Per lui non esisteva lo scatto di moda o di reportage e infatti ha mescolato le carte senza paura. «Perché un’immagine è un’immagine. L’ho capito con la campagna Jesus Jeans che ho realizzato a New York con Maurizio Vitale di Robe di Kappa: (un sedere di una donna in shorts molto ridotti con scritto “Chi mi ama mi segua”, nda). Era la fine del ’72. Pochi giorni dopo esce in prima pagina sul Corriere della Sera un articolo di Pierpaolo Pasolini e lì mi sono reso conto che quando si guarda un’immagine non si va a comperare un prodotto: si guarda un’immagine e basta. Quando guardo la deposizione di Andrea Mantegna alla Pinacoteca di Brera non mi converto alla religione, guardo quell’immagine che è un capolavoro. Che serve alla mia cultura, alla mia sensibilità, serve al mio sviluppo come essere umano. Qualsiasi immagine è la documentazione della nostra società, anche una cartolina illustrata ha una valenza socio politica: di Napoli possiamo avere la cartolina con il pino e quella con la spazzatura. Entrambe mi raccontano la città».
E così che fa la sua rivoluzione: già dall’inizio del suo lavoro e prima del leggendario sedere che indossava i Jesus Jeans. Il suo stile provoca una frattura importante nella fotografia di moda tradizionale: è dinamico, caratterizzato da un particolare virtuosismo grafico, ironico, tutti concetti lontani dai classici schemi. All’inizio degli anni ‘70 scatta un servizio per una rivista di moda francese con vari tipi di famiglie diverse: quella classica, la famiglia di divorziati, quella monoparentale: una donna circondata da figli avuti da tre mariti, uno francese, uno arabo e uno cecoslovacco, fino alla famiglia omogenitoriale. Era un servizio di moda che già ci raccontava la società in pieno cambiamento. Così come quando immortalava gli abiti di Valentino in mezzo ai salami, indossati da chi li mangiava durante un pic-nic sull’Appia Antica. O ancora quando a New York coinvolse Andy Warhol (“a lui piaceva fare il modello”, raccontava) in un servizio di moda sulla middle class americana: «Siamo andati insieme a scegliere i vestiti da Brook Brothers e abbiamo fatto le foto anche con le Polaroid».
Arriva poi un periodo epocale, quello di collaborazione con la Benetton: vent’anni di lavoro insieme a Luciano Benetton, dal 1982 al 2000, forse quello per cui verrà più ricordato. In queste campagne i soggetti sono poco canonici rispetto a quelli abitualmente usati per la pubblicità; diventano un veicolo per portare l’attenzione su piaghe epocali, come la guerra, la povertà, la fame, la malattia, la discriminazione. Ma tutto ciò non era uscito dal nulla. È stata una tappa naturale nel corso della sua storia di destabilizzatore del nostro modo di guardare. Sarebbe riduttivo definirlo un “provocatore”, perché, oltre le sue boutade guascone, il suo andare contro è sempre stato colto, pensato, studiato. Un proposito più volte dichiarato e sempre perseguito. Perché, per cambiare il mondo, si deve scardinare l’immaginario collettivo, che spesso si lega a convinzioni stratificate anche inconsapevolmente e forma le coscienze. A volte addirittura lo ha messo sotto shock. «Quelle che ho scattato per Benetton sono le vere immagini di reportage, che ci fanno vedere il mondo del consumo. C’è il mondo della condizione umana, e quello del consumo». E così sui manifesti, la guerra in Bosnia nel 1993 è stata rappresentata da un abito di un giovane ucciso recuperato dalla Croce Rossa; tre cuori (veri!) spiegarono l’assurdità del razzismo. Al centro c’erano sempre le persone, e quello che lui chiamava «la condizione umana». «Io non fotografo paesaggi, perché la natura è perfetta. Mi piace fotografare invece l’essere umano, perché è imperfetto. A New York da giovane nel locale Kansas City ho fotografato i grandi, come Lou Reed e Madonna, insieme a molta gente comune: ho quasi 30 mila foto. Con tutti, o quasi, ho parlato, discusso, bevuto, riso…». Negli ultimi anni questo suo lavoro lo ha ripreso con il progetto la Razza umana. Era umano troppo umano, dietro una durezza da film western. È stato un maestro? Sì.
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