In occasione dell’apertura della mostra “Dialoghi” alla Galleria del Cembalo di Roma, abbiamo intervistato Joan Fontcuberta. Il fotografo catalano è curatore e artista di una mostra in cui i suoi stessi lavori sono in dialogo con quelli di un altro grande fotografo, Paolo Gioli. La loro, è un’opera che mette in discussione la concezione convenzionale della fotografia, e questa mostra è omaggio e celebrazione di un’arte sperimentale, che attraversa i confini tra le discipline.
Il suo punto di vista e il punto di vista di Gioli, insieme. Che alchimia si è innescata?
«Ho sempre sentito che io e Gioli condividessimo molti interessi comuni rispetto alla fotografia. Per esempio, entrambi siamo interessati alla storia del medium, alla sua natura e attitudine sperimentale. Entrambi tentiamo di spingere i confini del linguaggio fotografico, per questo usiamo strategie che mixino medium, dipinti, fotografia e grafica digitale. Credo – quindi – che proprio a causa di queste connessioni io abbia scelto di omaggiare Gioli. Conosco il suo lavoro da molto tempo e ho voluto stabilire questo tipo di dialogo come riconoscenza per il suo contributo nell’arte contemporanea»
Perché proprio Paolo Gioli?
«Credo sia un grande artista, ma non molto conosciuto. Ritengo sia meritevole di maggiore riconoscimento di quello attuale. Il fatto che sia poco conosciuto, credo dipenda da un mercato in cui spesso il fattore ideologico non è così importante e – sfortunatamente – in questi tempi contemporanei i valori di mercato sono più importanti del contenuto ideologico dell’opera stessa»
Il metodo, il concetto, il soggetto. Che tipo di relazione lega i vostri lavori?
«Come dicevo, ci sono strategie simili e tematiche di interesse in comune. Per questo ho raccolto una selezione di opere di Gioli, e a queste ho voluto dare una sorta di risposta con i miei stessi lavori. Per esempio, se ci spostiamo nella prima sala, troverete il primo – pionieristico – tentativo di Niépce di fare una fotografia, reinterpretato da Gioli. Conoscevo questi lavori e ho realizzato immediatamente che avrebbero potuto connettersi con la mia attività. In questi casi, si parte dalla pittura per arrivare alla fotografia analogica, ed io parto dalla fotografia analogica per arrivare a quella digitale. Quindi c’è un link tra i miei lavori e quelli di Gioli in opere pur completamente differenti, il che offre una ricca combinazione»
Lei è anche curatore di questa mostra. Di solito le professioni dell’artista e del curatore sono ben distinte. Perché questa scelta di unirle?
«Non credo siano professioni così differenti. Entrambe le attività riguardano il prendere decisioni rispetto al repertorio di altri artisti. Per l’artista, il processo sta tutto nell’avere pronta una selezione di caratteristiche creative specifiche che sceglie nelle infinite possibilità che ha a disposizione; per questo l’artista è il curatore dei suoi stessi lavori. Se hai a che fare con altri artisti, allora sei il loro co-curatore. Il processo è simile»
Nella prima sala c’è una riflessione che risale alle prime fotografie di Niépce e al Realismo provocatorio di Courbet. Che rapporto avete con quelle che possiamo considerare le origini della fotografia?
«Il mio lavoro è sempre stato di sfida rispetto al concetto tradizionale di fotografia e sono sempre stato interessato sia al cuore del medium che alle sue possibilità periferiche. Cosa è considerato di valore per la nostra cultura, per la nostra storia? Perché alcuni tipi di produzione fotografica sono stati scartati? La storia della fotografia è sempre stata scritta da persone conservatrici che hanno stabilito regole molto fisse, ma dietro questi canoni ci sarebbero altri lavori da prendere in considerazione. Sono interessato a questo processo che stabilisce criteri, e alla sua possibilità di invertirli»
Restiamo in questa sala. C’è la rilettura, sia Sua che di Gioli, di un’opera pittorica, quella di Courbet, e una di fotografia, Niépce. Qual è per Lei il rapporto tra arte e fotografia?
«La fotografia è un linguaggio, l’arte, un progetto. L’arte è un’intenzione e questa intenzione può essere supportata da differenti linguaggi, che possono essere architettura, musica, fotografia, scultura, pittura e così via. La fotografia, come linguaggio, potrebbe soddisfare non solo l’arte, ma anche informazione, economia, religione o album di famiglia: qualunque cosa. Ciò significa che l’arte s’interseca con più linguaggi e più contenuti, e che non ci può essere conflitto tra queste due sfere»
Quanto tempa impiega per realizzare lavori come il mosaico digitale ‘Googlegram’: View from a Window?
«Si tratta della tecnica del fotomosaico, inventata nel 1996 da uno studente MIT in occasione del suo diploma. L’idea è che il mosaico è fatto da altri lavori presi da internet: la corretta immagine ha esattamente lo stesso colore che costituisce un frammento dell’opera. Per fare ciò si impiegano alcune ore, perché il lavoro secondario deve esattamente sostituire una parte dell’opera. Questo lavoro può essere una pubblica risorsa per artisti, come nel caso di Gibellina Photoroad»
Mostra visitata da Veronica Cimmino e Yasmin Riyahi
Dal 25 ottobre al 18 gennaio 2020
Galleria del Cembalo
Palazzo Borgese
Largo della Fontanella di Borghese, 19
00186 Roma
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