Dopo l’esordio come fotografa ritrattista Dorothea Lange (Hoboken, New Jersey, 1895 – San Francisco, 1965) decide di uscire dalle mura del suo studio di San Francisco per dedicarsi ad una importante missione sociale intenta a documentare la crisi climatica, le migrazioni e le discriminazioni degli Stati Uniti tra gli anni Trenta e Quaranta. La fotografa statunitense si distingue come una delle protagoniste assolute della fotografia documentaria della sua epoca, rivoluzionando il concetto stesso di fotogiornalismo.
Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro, visitabile fino all’8 ottobre, si presenta come una grande retrospettiva composta da oltre 200 scatti, selezionati da circa 16 000 negativi totali, provenienti dagli archivi della Library of Congress di Washington e dalla Public Library di New York. La mostra è suddivisa in due importanti nuclei appartenenti alle due principali campagne fotografiche a cui la Lange ha partecipato. La prima è commissionata dall’agenzia governativa statunitense Farm Security Administration (FSA), un programma di studi nato alla fine degli anni Venti per documentare le condizioni di crisi umanitaria del paese; la seconda spedizione è incaricata dal War Relocation Autority (WRA), anch’esso un dipartimento fotografico governativo nato durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il suo scatto più iconico è senza dubbio Migrant Mother (1936), il mezzo busto di una donna pensierosa incorniciato dalle folte chiome bruciate dal sole dei suoi bambini i cui volti sono nascosti e rifugiati nelle sue spalle. L’intenso sguardo eroico della madre, rivolto pensieroso verso l’esterno dell’inquadratura, rivela una profonda preoccupazione. I vestiti sono logori e il corpo sporco di terra, il viso è solcato da evidenti rughe che la fanno sembrare molto più matura della sua età . Il soggetto è rappresentato in una posizione statuaria che ricorda la forza espressiva del Pensatore (1880-1902) di Auguste Rodin. Lo scatto oltrepassa i confini del documento storico diventando un’ opera d’arte poiché Dorothea Lange è stata, come afferma John Szarkowski, «per scelta un’osservatrice sociale e per istinto un’artista».
La mostra è allestita in sei sale dentro le quali il visitatore è trasportato nelle campagne desertiche dei contadini migranti e nella desolazione delle città americane, negli accampamenti improvvisati chiamati “giungle” e nelle piantagioni di cotone, tabacco e mais tra la povertà e il razzismo degli Stati Uniti del secolo scorso. Alcune teche espositive racchiudono gli album originali con le fotografie e le didascalie che Dorothea Lange ha impaginato con urgenza. Il grande lavoro di documentazione fotografica è stato necessario per stabilire interventi di aiuto nei confronti delle popolazione e stanziare fondi d’emergenza per migliorare le condizioni di vita.
Il dettaglio più affascinante della mostra riguarda le didascalie, trascritte fedelmente dalle originali annotazioni di Dorothea Lange. Da queste trapela una distinta purezza d’animo, la stessa che ha portato la fotografa a sovvertire con furbizia le direttive della seconda spedizione commissionata dalla WRA, descrivendo così uno degli aspetti più tristi e arcani della storia americana, raccontato nell’ultima parte della mostra.
Dorothea Lange documenta con astuzia e coraggio una storia celata e dimenticata, così poco nota da destare stupore. Dopo l’attacco alla base navale di Pearl Harbor da parte del Giappone, circa 110.000 persone di discendenza giapponese risiedenti nel territorio americano vengono recluse in alcuni campi di detenzione. La fotografa è incaricata di documentare tutte le fasi dell’operazione tranne alcuni dei dettagli che simboleggiano la prigionia, come il filo spinato, l’esercito di guardia e le torri di controllo. La Lange riesce ad aggirare la censura, svincolandosi dal controllo imposto dall’esercito che la sorveglia costantemente, ma le fotografie rimarranno a lungo sconosciute.
Una delle foto più simboliche é Manzanar, California, 1942, raffigurante un ragazzino giapponese intento a leggere un fumetto americano intitolato Boy nel centro di trasferimento di Manzanar. Il suo sguardo è completamente assorto nelle vignette raffiguranti le scene di guerra e supereroi.
CAMERA, dopo la mostra su Eve Arnold, offre un nuovo appuntamento per immergersi nella storia della fotografia, quella fatta da donne che sanno andare controcorrente sfruttando il proprio intuito e la propria sensibilitĂ , fondamentale per osservare il mondo in maniera singolare. Il contributo di una fotografa come Dorothea Lange ha permesso di creare archivi di documenti storici di estrema importanza per ricostruire la storia del Novecento. Inoltre le tematiche affrontante sono di forte attualitĂ , diventando una importante occasione per riflettere sul nostro presente.
In parallelo alla mostra dedicata a Dorothea Lange – che è accompagnata da un catalogo edito da Dario Cimorelli editore – la Project Room di Camera ospita FUTURES 2023: nuove narrative, a cura di Giangavino Pazzola, 50 scatti di sei giovani talenti esplorano il tema della rappresentazione visiva della contemporaneità , ponendo uno sguardo sugli usi e costumi della nostra società .
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