Trent’anni di fotografie, ma non solo: trent’anni di incontri, fortunate coincidenze e scelte impulsive. Trent’anni di viaggi, riflessioni scritte e compromessi. È questo che racconta la mostra promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, visitabile fino al 7 gennaio 2024.
Eve Arnold viene presentata attraverso i temi cui si è dedicata, tanti e diversi, ma tutti tendenti a un comune obiettivo: capire le persone e privarle di ogni etichetta, in un mondo che etichettava e catalogava ogni cosa. Non ci sono vincoli cronologici, soltanto la voglia di riportare in vita le istanze vibranti che hanno animato il lavoro della prima donna a diventare Membro Associato della storica agenzia Magnum Photos.
Dagli scatti delle luci di Times Square e di una New York fugace e clandestina dei primi anni Cinquanta si passa al traumatico evento del 1959: l’aborto spontaneo. La risposta di Arnold alla tragedia è quella di chi rimane testardamente attaccata alla vita, che sceglie di analizzare il dolore anziché cercare di reprimerlo: passa mesi nel Mother Hospital di Port Jefferson per fotografare le scene più intime, brutali e poetiche della primissima fase di vita di un essere umano, i suoi primi cinque minuti. La crudezza e il calore di quelle immagini si mescolano dando vita ad una fotografia che non lascia spazio alla retorica, stroncando ogni possibilità di idealizzare la maternità.
La prima sezione della mostra si chiude con un primo accenno al tema dell’emarginazione dei migranti, un caposaldo del repertorio di Arnold. Negli anni Cinquanta documenta le condizioni di vita disumane dei raccoglitori di patate schiavizzati a Long Island dalla famiglia Davis, considerata discendente dei primi coloni.
Si continua, salendo al primo piano, con una decina di scatti che raccontano le sfilate afro nella periferia newyorkese di Harlem. Il progetto nasce come svolgimento di un compito assegnato durante il corso di fotografia, ma finisce per essere a tutti gli effetti una dichiarazione politica: rivendica l’indipendenza della comunità afroamericana e costituisce un attacco esplicito nei confronti dell’industria della moda americana. È il suo primo servizio, e c’è già tutto: la sfrontatezza nel declinare un tema elitario come quello della moda al contesto degradato della periferia, la capacità di far fronte all’inesperienza tecnica trovando nuove soluzioni, la faccia tosta di sfidare il sistema classista attraverso ritratti di gente coperta di glitter e costumi appariscenti. “Cerco di mettere da parte i timori di inadeguatezza”, scrive nella sua autobiografia In Retrospect (1995). Ed è da questo momento che inizia a farlo per davvero.
Sebbene, come precisa Monica Poggi, la fotografia di Arnold “non è solo cinema”, è innegabile che i suoi scatti più iconici provengano proprio dai set hollywoodiani, ed occupano infatti la sala più spaziosa del Museo. L’artista ritrae Marlene Dietrich, rifiutandosi di ritoccare le foto come la diva le aveva chiesto; inquadra Joan Crawford, rendendola protagonista di una serie di scatti da antidiva; infine, restituisce a Marilyn Monroe quell’umanità che la fama le aveva tolto.
Eve Arnold ha occupato con forza tutti quegli spazi che le erano stati preclusi in quanto donna, in quanto figlia di migranti, in quanto ebrea. Sapeva che “l’indipendenza costa cara”, ne ha pagato il prezzo riuscendo però a non vendersi mai. Alla base della sua sconfinata carriera c’è una sincera curiosità, un’instancabile ricerca di giustizia sociale e un occhio che, come fa notare il Presidente della Fondazione Gianfranco Brunelli, distingue Chronos, il tempo che scorre, da Kairos, l’attimo fugace.
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