Francesco Bosso, Morning Calm, 2018 Portugal. Courtesy Photo & Contemporary
Nelle sale del primo piano, Villa Pignatelli – Casa della Fotografia ospita la seconda tappa della mostra “Primitive Elements”, personale di Francesco Bosso a cura di Filippo Maggia, presentata per la prima volta alla Galleria delle Stelline un anno fa. Oltre 40 fotografie realizzate nell’ultimo quindicennio, attraversando il pianeta in lungo e in largo, per tessere un’ode alla natura che, oggi, risulta quasi straziante.
Le opere, recita il comunicato, «vogliono indurre il pubblico alla consapevolezza di quanto sia necessario tutelare l’ambiente e promuovere un cambiamento culturale soprattutto nell’uso responsabile delle risorse naturali». Eppure, quel processo di astrazione, di purificazione da ogni eccesso visivo, da ogni rumore circostante cui l’artista sottopone l’immagine, pare andare ben oltre l’avvertimento. Silenziosi e imponenti, questi elementi primitivi sembrano ormai affiorare inesorabilmente da una dimensione leggendaria, eterni nel ricordo, lontani dall’esperienza.
Con estrema padronanza nell’uso del banco ottico e nella stampa in camera oscura, Bosso realizza opere di indubbia pulizia formale, in cui il bianco e nero sfronda l’elemento naturale da ogni vivacità cromatica per restituirgli spessori e volumetrie che tendono allo scultoreo. Se infatti l’interesse verso la natura attraversa tutto il suo lavoro, altrettanto si può dire della continua negoziazione tra luminosità naturale e rapporto luce/ombra che si instaura all’interno dell’immagine fotografica e tra fotografia e soggetto ritratto.
Ne sono testimonianza i titoli delle serie, da alcune delle quali sono tratte le foto in mostra: White World, After Dark, Golden Light, Last Diamonds tradiscono la matrice di una ricerca in cui all’osservazione della natura «nelle sue espressioni migliori e più suggestive» – come ci raccontava Bosso in questa intervista – si affianca la ricerca di un equilibrio chiaroscurale perfetto in cui, contornati da un’aura quasi sacrale, rocce, cascate, iceberg diventano giganti sublimi e solitari, divinità ancestrali tornate nel presente a memoria della lunga storia di errori dell’uomo verso la sua terra.
Sullo scivoloso terreno della fotografia di paesaggio, in cui lo sguardo estatico rischia talvolta di risultare unica chiave di lettura dell’indiscussa bellezza di Madre Natura, Bosso traccia il suo sentiero, in cui visione plastico-luministica ed elaborato processo esecutivo si giocano sul filo di un’impresa dagli esiti non sempre scontati: liberare il soggetto dalle insidie di un inerme atteggiamento contemplativo, pur elevandolo esplicitamente a oggetto di un culto che è, inevitabilmente, antico e attuale insieme.
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