Fino al 12 gennaio 2020, sarà possibile visitare la prima mostra di Gianni Berengo Gardin interamente dedicata alla città di Roma. Più di settanta scatti, tra editi e molti inediti, che raccontano l’affascinante storia della Capitale, dal Dopoguerra ai giorni nostri, attraverso l’impareggiabile obiettivo di uno dei più grandi fotografi italiani.
La mostra è allestita nel Casale di Santa Maria Nova, tra i prestigiosi siti dell’area archeologica dell’Appia Antica. Questo spazio rappresenta una vivida testimonianza dell’evoluzione
del paesaggio sull’Appia e di una frequentazione che, dalle fasi romane fino
ai nostri giorni, non si è mai interrotta. Un luogo perfetto per gli scatti di Berengo Gardin, che in sessant’anni di carriera ha saputo cogliere un racconto progressivo di persone e luoghi della Capitale, facendo emergere tutte le contraddizioni della città, tra incantevole bellezza e drammatica violenza, andando ben oltre la banalità retorica di una certa fotografia di reportage. Abbiamo posto alcune domande al fotografo, per chiedergli della mostra e del suo rapporto personale con la città.
La mostra è dedicata all’immagine di Roma dal Dopoguerra ai giorni nostri. Che rapporto ha avuto Lei con questa città?
Ho vissuto a Roma dai 7 ai 15 anni. Abitavo in una traversa laterale di via dell’Amba Aradam. Erano gli anni della guerra, e io li ho vissuti lì, con tutti gli inconvenienti del caso: la mancanza d’acqua, di cibo,… Però l’ho apprezzata molto. Ho studiato a Roma: ho fatto le elementari lì, le medie e il primo liceo. Poi mi sono trasferito a Venezia.
Che rapporto ha ora con Roma? Qualcosa è cambiato?
È cambiato molto. Gli anni che c’ero io, erano gli anni della guerra. Non c’era affatto affluenza di turisti. Oggi c’è un turismo frenetico, come in tutte le città d’arte italiane – Firenze, Venezia – che stanno diventando invivibili. Certo, ora che sono in pensione vado solo saltuariamente a Roma, per mostre come questa, o per incontri, ma questa è l’impressione. Forse a Roma è un po’ più semplice rispetto a Venezia e Firenze, perché è più grande, c’è più dispersione.
Lei ha raccontato la città attraverso reportage sociali, ma anche con foto di architettura e di paesaggio urbano. Qual è il modo che preferisce?
Io ho fatto tre libri su Roma. In particolare uno di architettura per il Touring Club italiano: foto di palazzi storici, vecchie costruzioni romane,…. Questa mostra di oggi è più sul sociale. Ci sono anche alcune foto di Roma classica, però la maggior parte sono sull’uomo: foto di reportage fatte negli anni. Quello che interessa a me è più il paesaggio degli uomini che il paesaggio delle architetture. Quindi direi che ho avuto più interesse a fare questa mostra che il libro d’architettura.
I suoi scatti hanno fatto la storia della fotografia italiana. Come si confronta con la tradizione che ha contribuito a formare? Cosa fotografa oggi?
Non so se i miei scatti hanno fatto la storia della fotografia italiana, però qualcosa significano. Durante la mia carriera, ho fatto delle cose importanti con Zavattini, con Zeri, con Zevi; posso dire di aver collaborato con grandissimi uomini della cultura italiana. Ho fatto dei lavori importanti proprio perché erano questi personaggi che me li affidavano. Ormai fotografo poco e niente: ho 89 anni, gli anni iniziano a pesare e mi riposo. Sto facendo un libro su un museo di Brescia, e vivo con le foto dell’archivio. Al suo interno ci sono 1milione e 800mila scatti. Sfrutto tutto questo materiale che ho a disposizione, raccolto durante gli anni passati della mia carriera. È mia figlia Susanna che si prende cura dell’archivio: collabora con l’agenzia Contrasto e distribuisce materiale, organizza mostre, fa il lavoro di ricerca.
Mi parli di questa mostra
La mostra è in un posto bellissimo sull’Appia. All’inaugurazione c’era un’infinità di gente, malgrado non fosse facile raggiungerlo. Ha un allestimento eccezionale, realizzato da giovani architetti. Come le ripeto, sono tutte foto di reportage: sui romani, più che su Roma. Per questo è molto interessante.
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