Maria Sabina Berra è dall’altro capo del telefono. Ci racconta: «Mi piaceva l’idea di spiazzare» e, andando un po’ più nello specifico, che «L’hortus conclusus è poco interessante di per sé». Benvenuti nei Giardini disobbedienti. Che, continua Berra ed è fondamentale aggiungere, «Sono fuori dalla logica». La logica, quella che impone schemi a cui attenersi. Al Galata Museo del Mare di Genova, le scelte curatoriali di Berra – assieme a Pio Tarantini – assumono quella “logica” come miccia per un cortocircuito mentale, prima, fotografico poi. A partire dal concetto di “giardino”, dalla natura “in cattività”, per andare oltre i limiti del puramente visibile e delle sue relative imposizioni.
Partire, quindi, dalla natura nella sua versione – scusate il gioco di parole – meno “naturale” possibile. Da un prodotto rispondente a velleità sociali, per arrivare al giardino in quanto accezione libera, concetto astratto. Spazio sì configurato in base a generali esigenze umane, ma anche ri-plasmabile in base a scelte individuali. Cosa che si può fare solo concedendosi il lusso di disobbedire.
Quella che ci troviamo di fronte è una mostra – presentata anche in omaggio all’edizione 2023 dei Rolli Days – concepita come un display espositivo molto lineare; un corridoio pulito, quanto basta a dare il peso maggiore possibile ai singoli pezzi e ai loro contenuti narrativi. Non per nulla, Berra racconta di voler presentare «Punti di vista fotografici diversi», grazie a «Un’alternanza di sguardi». Affermazioni che risolvono “Giardini disobbedienti” in un progetto decisamente concentrato sia sull’idea di un “tempo fotografico”, sia – e forse soprattutto – su quella di “sottolineatura”, sull’enfatizzazione di specifici elementi di una realtà precostituita. Un’azione destrutturante nei confronti della realtà codificata, proprio come quando di un testo si vanno a estrapolare frasi e concetti salienti. Destrutturandolo, appunto.
In questo articolo vogliamo essere un po’ disobbedienti anche noi: destruttureremo – non ce ne vogliano i curatori – un’intera mostra, andando a sottolineare quelle presenze che hanno catturato la nostra attenzione più di altre. Cominciando da un’impulsiva Cristina Omenetto. Che, tra reti e foglie secche al Central Park di New York, contestualizza socialmente il tempo delle stagioni, focalizzandosi su un’azione umana mirata a controllare la natura e i suoi processi.
Esattamente dall’altro lato c’è Francesco Radino, in Göteborg 1987 con una sintesi visiva concentrata su altrettanti precisi elementi narrativi. Seppur decisamente più “rilassata” rispetto alla nostra Omenetto: alberi, sdraio, assenza umana e presenza del vento, nulla è fuori posto nel restituire un ecosistema inequilibrio tra realismo e idealizzazione. Quello che per Radino è un giardino “dell’anima”, per BB è del tutto mentale, racchiuso in un’immagine “curativa”. Dotata di quel sentore tra il ghirriano e certe atmosfere di Hans Op de Beeck nel trasudare malinconia, in una scena di urbanità tanto anonima, quanto narrativa e sentita. Un gran lavoro perché sai che quell’immagine non è tua, nel senso che non ti apparterrà né qui, né ora, né mai. Sai che è vita di un altra persona. Ma sai anche che là dentro c’è una storia.
Il più disobbediente, a nostro parere? Gianni Maffi, che controbatte alla classificazione forzata con una classificazione altrettanto forzata. Maffi e gli orti botanici, la fotografia che estrapola il giardino come sistema di classificazione, tramutandolo in oggetto da classificare a sua volta. Le rose, le siepi di bosso, le sedute in pietra erose dal tempo, Maffi adotta una visione personalmente sistematica; che molto deve all’analiticità – progettualmente inquadrata – delle composizioni fotografiche di un Cesare Leonardi, tanto per dire. E se non abbiamo dato il titolo di più disobbediente a Lelli e Masotti, massimi esperti del riciclo naturale nella finzione, è solo per un motivo: loro corrono su un’altra fascia.
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