Categorie: Fotografia

Il labirinto quotidiano di Alain Laboile, al Castello Carlo V di Lecce

di - 28 Agosto 2024

Un intricato percorso di tele verticali, simili a panni stesi al sole, frammenta, fino al 4 novembre, lo spazio unitario del bastione Santa Croce del Castello Carlo V di Lecce, recentemente restaurato. È l’allestimento intimistico e avvolgente pensato da Peter Bottazzi per la nuova personale di Alain Laboile, lo scultore francese reso celebre dal ciclo fotografico La famille, in cui, in decine di immagini in bianco nero, racconta la vita quotidiana dei suoi sei figli entro le mura domestiche. Una tenera epopea del quotidiano, nella quale i protagonisti sono colti in momenti di gioiosa spensieratezza.

Organizzata dalla Direzione regionale Musei nazionali di Puglia e dal Movimento Culturale Spiragli, l’esposizione leccese segue quelle organizzate in Giappone, negli Stati Uniti, in Olanda, in Argentina e l’acquisizione del ciclo al Musée français de la photographie collection di Bièvres.

Abbiamo incontrato artista e curatore per farci raccontare il loro progetto espositivo.

Come concili la tua attività di scultore con l’interesse per la fotografia?

Alain Laboile «La scultura è un’arte che richiede tempo, pazienza, l’impiego di materiali e un impegno fisico. Per questo della fotografia mi piace l’immediatezza, la sincerità del momento catturata dall’obiettivo per l’eternità. E quando converto un’immagine in bianco e nero, mi piace modellarla, bilanciarla come se fosse in uno specchio, come un elemento tridimensionale, in definitiva come una scultura».

Il ciclo La Famille ha un carattere intimistico. Hai progetti fotografici di altra natura per il futuro?

AL «Mentre i bambini crescevano, avevo già la sensazione che la mia serie fluviale La Famille stesse per finire. Ma molte delle immagini di quella serie non sono mai state esposte, il che mi apre grandi opportunità per nuove mostre e pubblicazioni. Al momento sto dedicando tutto il mio tempo all’altra mia attività, la scultura. Tuttavia, ho in un quaderno molte idee per future serie fotografiche. Non so quale sarà il mio futuro artistico, non sto cercando di proiettarmi, ma non sono preoccupato. Non sarò mai a corto di ispirazione, è più una questione di tempo».

Nella costruzione dell’immagine che funzione ha la scelta del bianco-nero?

AL «Scatto tutte le mie foto a colori ed è quando apro l’immagine sullo schermo che scelgo se convertirla o meno. Alcune, pochissime, mantengono il colore. Non ho una spiegazione razionale per la scelta finale. Queste immagini a colori richiedono poca post-produzione, mi parlano subito. Per quanto riguarda la post-produzione, sono più attratto dal lavoro con il bianco e nero. Mi piace entrare nell’immagine e lavorare sull’equilibrio delle masse che la compongono, scolpendo luci e ombre. Con il colore ho sempre la sensazione di lavorare in due dimensioni, sulla superficie dell’immagine. Piuttosto che avere difficoltà con il colore, lascio che sia l’ovvietà del bianco e nero a guidare la mia scelta».

Designer, architetto, scenografo, artista, la tua è una professionalità sfaccettata, neorinascimentale direi. Tu come definiresti il tuo lavoro?

Peter Bottazzi «È vero, ad ascoltare quest’elenco viene in mente la classica figura dell’artista a tutto tondo di stampo rinascimentale. Tra l’altro aggiungerei pseudo-compositore (solo di musiche per installazioni e mostre). La risposta a questa domanda potrebbe essere lunga. Mi ritengo davvero fortunato perché tutto questo parte da molto lontano dato che fin da ragazzo ho avuto modo di lavorare in ambito teatrale, nello specifico con una compagnia di marionette che mi ha permesso di scoprire e lavorare su fronti diversi: scenografia, pittura, scultura, disegno luci, costumi, oltre naturalmente al manovrare le marionette. Ho immagazzinato tantissime informazioni.

Inoltre sono molto curioso, interessato ad ogni forma di cultura, posso dire di essere bulimico al riguardo. Questo ha fatto sì che, nel tempo, conseguissi una laurea in progettazione architettonica e iniziassi a lavorare con grandi nomi e marchi di varie settori. Tutte queste collaborazioni nel campo della moda, del design, del teatro, della televisione, dell’arte, tutte realtà molto diverse tra loro, costituiscono oggi il mio patrimonio personale, rendendomi poliedrico.

Adoro lavorare per progetti speciali e unici, dove posso mettere a pieno regime la mia fantasia e professionalità. Sto anche cominciando a progettare opere permanenti, cosa per me inconcepibile finora. Sono cresciuto nel mondo del provvisorio e dello spettacolare, dell’esperienza a tutto tondo se possibile sempre diversa per ogni visitatore/spettatore per creare qualcosa che avesse tutte le caratteristiche del sogno o dell’apparizione e come tale svanisse in breve tempo. Ho sempre pensato che ci vuole moltissimo coraggio a realizzare opere durature e ingombranti, che ci voglia molta responsabilità per decidere di occupare spazio sul pianeta ed essere certo di non sfornare l’ennesima e inutile cosa brutta».

Hai lavorato con diversi artisti, specialmente fotografi. Celebre la tua collaborazione con Steve McCurry. Ma al momento di ideare un allestimento da quale elemento parti?  La ricerca dell’artista, le opere da allestire, gli spazi a disposizione, cosa?

PB «La fortuna ha voluto che fossi molto spesso al momento giusto nel posto giusto – a maggior ragione perché non sono un girandolone molto socievole – e abbia potuto collaborare con artisti veri e aziende rinomate. Per me l’elemento di partenza di qualunque progetto e di qualunque natura è il luogo, ogni mio lavoro è tagliato a misura per lo spazio che si andrà a progettare. È questo che determina ogni aspetto. Ho molta sensibilità riguardo ai luoghi e le vibrazioni che essi hanno o che possono sviluppare se ben interpretati o coinvolti.

Ma, inutile dirlo, più che le opere da “esporre”, (preferisco dire “raccontare ed interpretare”) è la somma di tantissimi elementi, opere comprese, a determinare un risultato preciso. Considero una pausa tra due fotografie, un certo tipo di illuminazione, uno scorcio inatteso altrettanti elementi fondanti. Questa attenzione verso l’immateriale e il silenzio porta alla costruzione di una e vera e propria regia che mi viene dall’aver praticato il teatro».

La mostra di Laboile al Castello Carlo V di Lecce si avvale di un allestimento labirintico. Com’è è nata l’idea?

PB «L’idea di perdersi, di creare sempre nuovi punti di vista e generare smarrimento oltre che magia sono una costante del mio lavoro, e funzionano molto bene in spazi medio piccoli. Il vantaggio delle mostre rispetto al teatro è che permettono di avere tempi e dinamiche unici e personali e sarebbe un peccato non usare al meglio gambe, orecchie e occhi per ricercare e scoprire, o meglio esperire.

Le immagini di Alain mi hanno subito fatto pensare ad un terrazzo con panni stesi dove le foto si andavano definendo e materializzando su lembi svolazzanti tra cui vagare senza una meta precisa, senza un ordine predefinito, e poi volevo che si potesse giocare e riposare con la stessa lievità e serietà con cui i suoi figli hanno vissuto l’infanzia.

Inoltre il Castello Carlo V è magico ma intoccabile e quindi ho voluto riutilizzare le mille aperture presenti nelle mura del castello per ricreare impalcature in legno a sorreggere non più le maestranze di allora ma le opere e le luci della mostra. Lavorare a Lecce è stato entusiasmante».

Nato a Terlizzi nel 1980, è giornalista, critico d’arte e curatore indipendente. Dopo la laurea in Conservazione dei Beni Culturali presso l'Università degli Studi di Lecce, si perfeziona sull'Arte del Novecento all'Università degli Studi di Bari. Già cultore della materia in Museologia presso l’Università degli Studi della Calabria e docente a contratto presso l’Accademia di Belle Arti di Vibo Valentia, ha condotto studi specialistici e curato mostre per Soprintendenze, istituzioni e musei.  

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