10 ottobre 2019

Impressioni dai luoghi fragili del mondo, al Festival della Fotografia Etica

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Negli spazi della Chiesa dell’Angelo, a Lodi, gli scatti della fotografa, filologa e viaggiatrice Monika Bulaj

Una fotografia di Monika Bulaj al Festival della Fotografia Etica di Lodi

Nei weekend di ottobre, le porte dell’Ex Chiesa dell’Angelo a Lodi si aprono per “Broken Songlines. Il canto che non parte dal cuore degli anziani”. La mostra della fotografa, reporter, documentarista e performer Monika Bulaj, realizzata con il contributo di Fujifilm nell’ambito del Festival della Fotografia Etica (X edizione). Attorno all’altare barocco, «schegge di un grande specchio rotto» che, attraverso un lavoro maniacale di ricomposizione e le forme e i linguaggi della fotografia, si ricongiungono in un mosaico emozionante mai completo. È un racconto – e raccontare le storie per Monika Bulaj è la cosa più naturale, umana – che tiene incollati sui mondi a rischio (solo in questa mostra sono 20 Paesi).

«Luoghi ponti, bastardi, perché di identità incerta». Come il santuario Sufi dove pregano insieme musulmani sciiti e sunniti, indù e cristiani, donne e transgender, e per questo è stato attaccato dai terroristi. Monika Bulaj dà voce soprattutto ai custodi indifesi di questi luoghi fragili, omettendo la loro esatta collocazione per non creare una topografia di luoghi da eliminare o veri e propri luna park per fotografi. Così è accaduto ai Kalasha, gli ultimi pagani dell’India del Nord, discendenti da Alessandro Magno, che vivono appartati per sfuggire all’assalto dei selfie dei turisti.

La fotografa – una donna polacca con occhi celesti magnetici che “parlano” e una gestualità ipnotica (era ballerina e artista di strada) – è filologa di formazione. Non ha studiato antropologia, i suoi amici la definiscono “antropola”, ma segue la scuola del rumeno Mircea Eliade (1907-1986) per compilare scrupolosamente, anno dopo anno, la sua agenda del sacro con i calendari lunari e solari di tribù e religioni. Per quanto il tempo e la fatica lo permettano, Monika Bulaj cerca di seguire le feste religiose sparse nel mondo, arrivando, sola, con largo anticipo e costruendo rapporti con la comunità. Pur parlando 8 lingue, ad Haiti, per documentare la grande festa vudù della purificazione sotto la cascata di Sodò, ha imparato il creolo. Pian piano si è avvicinata al persiano e all’urdu, ma le mancano arabo e turco. «Venderei l’anima al diavolo pur di sapere perché le donne afghane ridono fino ad esplodere».

A volte le sfugge un mondo di ironia, di complicità. Anche se in questi viaggi – da tenace esploratrice con scarpe comode e la macchina fotografica (che è solo un tramite) nascosta sotto il velo – spesso l’accoglienza e l’umanità scorrono copiosi attraverso canali non verbali. «Le donne mi chiamano tutte sorella».

Il primo viaggio è stato a 19 anni, nell’inverno polacco, a piedi lungo il confine da sud a nord. Chiedeva ospitalità e andava incontro alle minoranze, una dopo l’altra. Solo dopo anni, si accorse di aver trasformato il pensiero in azione, semplicemente camminando. Che significa lasciare dietro tutto, essere nel tempo presente e – dice bene David Le Breton – aprirsi al mondo. All’incontro. La pratica di Monika Bulaj è un perenne cammino, con i nomadi – i Kana Badosh (“quelli che si portano la casa sulle spalle”) in Pakistan o i Kuchi in Afghanistan – sempre più in bilico, sempre più sedentari, a causa della siccità. Ma è soprattutto un lavoro sulla loro saggezza, sulla capacità di cogliere dai libri sacri ciò che è leggero, quello che può essere portato in viaggio.

Gli scatti sorprendenti di Monika Bulaj, in esposizione al Festival della Fotografia Etica, disinnescano con coraggio gli schemi mentali, l’indifferenza e la paura «che fa sì che nell’altro tu veda soltanto un altro».

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