Fino al 7 gennaio, la sede delle Gallerie d’Italia di Piazza San Carlo, a Torino, ospita Mimmo Jodice Senza tempo, la mostra dedicata al lavoro di uno dei maggiori e più significativi maestri della fotografia italiana e internazionale. L’esposizione, curata da Roberto Koch, si compone di ottanta opere realizzate dal 1964 al 2011, più un documentario firmato da Mario Martone. Nato a Napoli nel 1934 e noto in tutto il mondo, Mimmo Jodice pensa la fotografia in tutto e per tutto come arte contemporanea. Sempre esaltando la dimensione interiore dell’immagine, la sua scandita e lenta temporalità, ne mette in evidenza le caratteristiche di espressività profonda e poetica. Jodice gira intorno alle immagini, le guarda, le usa; nella loro dimensione fisica e cartacea, persino le distrugge, per poi ricomporle donando loro una vita nuova e inattesa, e generando attraverso di esse una nuova dimensione di realtà. Le sue parole, profonde e bellissime, raccontano il suo pensiero e la sua arte, in questa intervista.
Qual è il rapporto tra tempo e fotografia?
Per me quello della Fotografia è sempre stato un tempo lungo, lento. Parto da un progetto: può essere un’inchiesta sul lavoro minorile oppure sulle industrie e gli operai, un racconto sulla scultura, il mare, il vuoto. La prima cosa è trovare i luoghi che possano aiutarmi a realizzare il progetto. Cammino molto, torno più volte nello stesso posto, osservo il modo in cui cambia la luce. Poi comincio a fotografare. Non ho lo scatto facile, faccio una foto, poi forse torno per vedere come la luce ha cambiato la percezione del posto. Il mio caro amico filosofo, Paul Virilio, mi diceva sempre: <<Mimmo, nous sommes lentes, nous n’aimons pas la rapidité>>. Ecco: il mio è un tempo lento, lentissimo.
In che modo la fotografia esalta la dimensione onirica nell’esperienza del reale?
Uno stesso luogo cambia con la luce: un volto, un corpo, una scultura, una strada diventano altro, se tu scegli seguendo un tuo pensiero, un tuo sogno.
La sua opera esalta la qualità introspettiva dell’immagine. Nell’epoca contemporanea, in cui siamo invasi da una incontenibile quantità di immagini, qual è il valore profondo di questa qualità?
È vero che siamo circondati, inseguiti, storditi dalle immagini. Penso che questo capiti anche perché leggiamo poco e non creiamo immagini dentro di noi. Sono un solitario, amo la musica classica ed amo passeggiare alle prime luci dell’alba. Forse è così che creo, trovo immagini intime, silenziose.
Vorrei sapere di più della collaborazione con Martone. Com’è stato lavorare con lui e che cosa troveremo nel documentario da lui realizzato sulla sua opera?
Conosco Mario da sempre: siamo ambedue napoletani ma lui è molto più giovane di me. L’ho amato ed ammirato sin dal suo primo lavoro: mi colpì il suo Tango Glaciale alla Biennale di Venezia del 1982 (spero di ricordare bene…). Ho visto tutti i suoi film e la mia ammirazione per lui è cresciuta in modo infinito. Questa collaborazione con Mario mi è sembrata un dono: io sono totalmente imbranato ma lui è paziente, affettuoso ed ha grande intuito. Mario sta ancora lavorando su di me; è ancora presto per dire quali saranno le sue scelte e come sarà il suo racconto.
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