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L’arte del fotoreportage: Michael Christopher Brown a Catania
Fotografia
Classe 1978, cresciuto nella Skagit Valley, una comunità agricola nello stato di Washington, è oggi residente a Los Angeles. Tra le sue collaborazioni, solo per citarne alcune, quelle con Time, The New York Times Magazine, National Geography, dal 2015 al 2017 con Magnum Photos, oltre a libri come Libyan Sugar, vincitore del Paris Photo-Award del 2016 e dell’International Center of Photography Infinity Artist Book Award, nel 2015. È Michael Christopher Brown, considerato il simbolo del fotoreportage contemporaneo. Grazie alla Fondazione OELLE Mediterraneo Antico, dal 28 settembre all’8 ottobre Brown approderà in Italia, in Sicilia, per una residenza-reportage nell’isola, un workshop di fotogiornalismo, un seminario e la sua prima retrospettiva italiana di oltre 250 fotografie visitabile fino al prossimo 30 aprile. Per saperne di più abbiamo intervistato il curatore del progetto, Ezio Costanzo.
Come definirebbe Michael Christopher Brown?
«Un testimone del nostro tempo che immortala gli eventi giornalisticamente, ma anche con una narrazione forte, introspettiva. Brown è un fotoreporter nei cui scatti emerge la sua opinione, che fotografa la storia del mondo, della gente, degli avvenimenti, anche drammatici come le guerre e i conflitti civili, che imprime a ogni scatto la propria scelta ideologica. Come è successo in Libia, dove si è sentito fortemente connesso agli eventi e alle persone che fotografava, al sogno della conquista della libertà che gli aleggiava attorno. Ecco, per Brown la Libia è stata come la Spagna durante la guerra civile del 1936 per Robert Capa. Sta dentro con tutta la sua partecipazione emotiva, rischiando la pelle per trovarsi sempre a un passo dalla notizia».
In che modo Brown ha innovato il linguaggio del fotoreportage?
«Certamente con l’utilizzo di uno strumento, l’Iphone, che nessun fotoreporter professionista aveva mai pensato di utilizzare per documentare un conflitto. La vicinanza al soggetto offerta dallo smartphone è servita a Brown per instaurare un legame con le persone fotografate e per realizzare scatti altrimenti impossibili. Negli ospedali libici, per esempio, dove i fotografi non erano autorizzati a entrare, Brown riesce a catturare immagini che altri colleghi con le loro apparecchiature ingombranti non hanno potuto cogliere. Il fatto che sia stato assunto dalla Magnum con un portfolio pieno zeppo di fotografie scattate con l’Iphone ha scombinato l’intero mondo del fotogiornalismo, ma ha segnato anche l’inizio di una nuova era. E ha sancito il fatto che, dietro a ogni istantanea, c’è sempre colui che in quel momento decide di premere l’otturatore. Non è lo strumento che conta. Ma ciò che si è capaci di osservare e catturare».
Quali sono i suoi lavori più iconici?
«Innanzitutto la narrazione della rivoluzione libica, con i suoi scatti espliciti, brutali, inclementi, di corpi senza vita con gli occhi ancora aperti o del viso di Gheddafi pestato a sangue. Senza tralasciare i reportage davvero sorprendenti eseguiti in Cina, a Cuba, in Congo, in Afghanistan, in Messico, nelle metropolitane di Pechino o nella remota isola russa di Sakhalin. In questi lavori la tensione introspettiva della narrazione si fonde in modo magistrale con gli aspetti compositivi delle immagini. E ciò che ne viene fuori è davvero sorprendente, oltre che fotograficamente straordinario».
Dove si colloca Brown all’interno della storia del fotoreportage di guerra?
«Brown racchiude il coraggio di Robert Capa e la rigorosa maestria compositiva di Cartier Bresson. Sono qualità che non richiedono apparecchiature fotografiche costose e multifunzionali. Come i due grandi fotografi che citavo prima ci hanno insegnato, occorre solo essere sempre vicino al soggetto fotografato e, nel momento dello scatto, riuscire ad allineare mente, occhio e cuore. È quello che Brown riesce a fare come pochi altri».
In che modo è cambiato il fotoreportage di guerra oggi?
«Beh, oggi si vanno a fotografare le guerre anche con l’Iphone. Quindi la possibilità di movimento è massima. E non c’è la censura militare che, durante le guerre mondiali, ha impedito la libera diffusione delle immagini. Oggi, e lo stesso Brown lo dimostra, le fotografie sono in rete pochi minuti dopo lo scatto da qualsiasi parte del mondo. Altra cosa rispetto alle fotografie scattate, per esempio, nel 1842 durante l’incendio di Amburgo dai fotografi Stelzner e Biow che, per la prima volta, documentarono un fatto di cronaca. Fu il primo fotoreportage della storia, ma occorre ricordare che quelle lastre rimasero per anni dentro un cassetto, inutilizzate, prima di essere pubblicate».