23 giugno 2023

La mostra di Andreas Gursky al MAST di Bologna, per celebrare cultura e lavoro

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Al MAST di Bologna va in scena una personale dedicata al fotografo tedesco Andreas Gursky, per celebrare i 100 anni dell’azienda G.D. e i 10 anni del MAST

Andreas Gursky, Amazon, 2016 © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 Courtesy: Sprüth Magers

La personale dedicata al fotografo tedesco Andreas Gursky ben rappresenta la finalità espressa da Isabella Seràgnoli, la proprietaria, di festeggiare le ricorrenze unendo due parole come cultura e lavoro e trasformandole in un’endiadi virtuosa. Il MAST – Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna ha prodotto in dieci anni mostre importanti, attivato la Biennale di Fotografia del Lavoro, arricchito con conferenze e visite guidate l’offerta culturale al suo interno, con ricadute importanti sulla cultura cittadina e attirando un pubblico nazionale ed internazionale.

Andreas Gursky uno dei più famosi fotografi al mondo, incarna così la prospettiva dell’eccellenza culturale e lavorativa dell’interpretazione aziendale. Il saggio in catalogo del curatore Urs Stahel sottolineando l’importanza del “brand” Gursky, inizia ricordando i valori record delle sue fotografie, in particolare con la fotografia Rhein II del 1999 ha toccato il record di 4,3 milioni di dollari, imbattuto fino al 2021. La valorizzazione del medium fotografico, ricorda sempre il curatore, inizia alla fine degli anni Settanta con la “svolta iconica” che segue la “svolta linguistica” delle neoavanguardie e viene interpretata dalla nota Picture Generation. La definizione nasce dalla mostra Pictures del 1977 curata da Douglas Crimp invitato da Helen Winter, direttore dell’Artists Space, a New York e caratterizzata dal ritorno dell’immagine soprattutto, anche se non esclusivamente, in fotografia.

L’interpretazione postrutturalista e critica nei confronti del medium viene letta da Stahel alla luce del concetto di simulazione di Jean Baudrillard, secondo il quale siamo sottoposti ad una iper-realtà mediale, nella quale il “simulacro” ha sostituito la realtà, ossia “l’essere immagine conquista il primato ontologico sull’essere” (Michael Wetzel, Paradoxe Intervention. Jean Baudrillard und Paul Virilio: Zwei Apolakyptiker der neuen Medien, in Ralf Bohn, Dieter Fuder, a cura di Baudrillard. Simulation und Verführung, Fink, Monaco, 1994 cit nel catalogo, p 13). La cultura statunitense della Picture Generation trova un corrispettivo in Europa e soprattutto in Germania. Gursky infatti si forma alla Folkwang Schule di Essen sotto l’egida di Otto Steinert e, soprattutto, alla famosa Accademia di Düsseldorf, nella “scuola dei Becher”, che ha formato gli ormai mitici Thomas Ruff e Axel Hütte, e più avanti Thomas Struth e Candida Höfer.

Lo sguardo di Gursky è onnivoro e comprende soprattutto luoghi antropizzati, ma privi di persone e sono dei più svariati e iconici, catturati durante i vasti viaggi dell’artista in giro per il mondo: i siti dell’industria contemporanea; i luoghi della produzione e trasbordo delle merci; i simboli della finanza mondiale; i luoghi di transito, come alberghi, porti, aeroporti; fantastici luoghi dove si produce e si immagazzina energia; l’industria del tempo libero, del turismo, dello sport; l’industria agroalimentare, l’economia agricola e la produzione di carne.

Ad apertura della mostra si trova la grandissima immagine Salerno I, 1990. Avevo visto molte volte quella fotografia sui libri, ma mai dal vero. Mi è venuta incontro, raffinatissima, con trasparenze e raffinatezze che il libro non può sostituire ed ho verificato quanto diceva Stahel in conferenza stampa, che le immagini di Gursky ti coinvolgono in un dialogo e riconfigurano lo spazio dove si trovano creando nuove relazioni pulsanti e coinvolgenti con lo spettatore.

L’intervista del curatore con l’artista è stata illuminante: è iniziata proprio con Salerno e il racconto dell’attimo catturato poco prima del tramonto in un cielo cliché che domina il formicolante spazio del porto sottostante. Gli sono serviti pochi scatti e poi il resto è stato ricomposto in studio.

Ed ecco spiegato il processo complesso, laborioso di postproduzione dell’artista (non lo chiameremo più fotografo). Anche nella pittorica rappresentazione di Rhein II (1999) c’è stato un processo di postproduzione (e c’è sempre in Gursky) che ha eliminato i siti produttivi dello sfondo. L’immagine di primo acchito mi ha deluso: come? Una fotografia che ha battuto ogni record per vent’anni così piccola? Mi ero già abituata in mostra all’alto impatto delle sue enormi fotografie.

Andreas Gursky, Bahrain I, 2005 © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 Courtesy: Sprüth Magers

Ma poi ho capito (credo) che il formato contenuto richiama il quadro di una stanza normale, familiare, e quegli strati orizzontali di colore unito che alterna il verde del prato al grigio della stradina, del fiume e del cielo sono un omaggio all’espressionismo astratto, alle velature e alle profondità dei campi di Mark Rothko. Gursky ricorda che ha frequentato per otto anni l’Accademia e che per altrettanti anni vi ha insegnato, ama e conosce l’arte e la pittura e la colleziona. Afferma: “io, come uno scultore o un pittore, creo immagini”. Ne studia il formato, la resa, la profondità, il punto di vista e di fuga e rende visibili eventi, situazioni, li immortala e li restituisce all’occhio pigro dello spettatore.

Tuttavia il processo è squisitamente legato al fatto meccanico proprio del medium fotografico. Infatti, sempre durante l’intervista spiega che per arrivare a comporre alcune delle fotografie è capace di impiegare 40 o 50 scatti, approdando ad una resa lucida e fedele del dettaglio, che richiama la genealogia propria della fotografia tedesca che nasce dalla Nuova Oggettività degli anni 20 e 30. Oggi si tratta di un processo di dare e avere, di scambio, dato che anche i pittori elaborano le immagini con e attraverso i mezzi tecnologici e non sempre ritornano al pennello.

Andreas Gursky, Hong Kong Shanghai Bank III, 2020 © ANDREAS GURSKY, by SIAE 2023 Courtesy: Sprüth Magers

Bahrain I, 2005, è composta da moltissimi scatti ed ha un’elaborazione spinta, che ha creato dibattito nei puristi, ma si tratta di una visione dall’alto, un’evocazione onirica quasi astratta dell’idea del percorso e della corsa. Hong Kong Shanghai Bank III del 2020, segue di vent’anni la prima versione, per la quale si era parlato di “svolta pittorica” in Gursky per i suoi colori impastati, nella versione più recente delle parole con riferimenti all’arte e alla vita contemporanea vengono incastonate nell’architettura, grazie alla collaborazione con Jenny Holzer. Infine la fotografia che mi ha più colpito è l’enorme Kamiokande del 2007, un sito scientifico in Giappone usato come rilevatore di neutrini a mille metri sottoterra nella roccia granitica per isolare le radiazioni. Aveva visto una fotografia in una rivista scientifica, ma da documento Gursky la trasforma in un’opera d’arte. Migliaia di elementi dorati costruiscono un’ampia scena surreale e fantascientifica, poi ci si accorge che sull’acqua navigano due minuscoli gommoni gialli con delle personcine a bordo e la visione diventa enigmatica. Si tratta di un viaggio dove l’uomo in un afflato che comprende il sublime romantico si trova all’interno della vastità del cosmo composto di infinitesime innumerevoli particelle.

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