Le fotografie di Maurizio Esposito occupano due sale del primo piano del MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove saranno visibili fino al 19 febbraio di quest’anno. La fotografia potrebbe essere considerata l’obiettiva registrazione pura e semplice della realtà. Ma non lo è. Neanche la fotografia riproduce precisamente un oggetto o un fatto, perché risente sempre della scelta dell’autore, del suo punto di vista ma anche di fattori quali l’illuminazione e di una congerie di elementi che la contraddistinguono. Anche il formato di un’immagine ha la sua importanza. La sua dimensione incide molto sulla sua fruibilità e il suo significato.
La belle fotografie in mostra in questi giorni al MANN, hanno una grandezza tale che ci permette di “tuffarci dentro” il paesaggio rappresentato. Che è quello del Vesuvio, ripreso, in diversi momenti, in sequenza, durante lo svolgersi di anni, in occasione di un evento drammatico: il devastante incendio che lo aveva colpito l’11 luglio 2017, producendo la distruzione del suo manto erboso e attaccandone in ogni modo la flora e la fauna. Il mezzo fotografico racconta di quando l’incendio era stato appiccato, si era sviluppato e di come, nel volgere del tempo, le ferite che erano state inferte al paesaggio naturale, a poco a poco, si erano andate rimarginando.
È un discorso drammatico, dai toni cupi, che via via si schiariscono: c’è il racconto di una distruzione e della sua lenta rinascita. Un discorso disperato ma non senza speranza, perché Maurizio Esposito, da un episodio specifico, trae l’affermazione della possibilità di una ricostruzione, passando a rappresentare una positiva visione del mondo. Il fatto è che lui aveva abitato proprio in quei luoghi distrutti dall’incendio ed era stato tra i primi ad accorrervi in soccorso. Ricorda tutto dell’evento. Quello che lui racconta è il suo vissuto: ha visto la sua casa, i luoghi a lui familiari distrutti, mangiati dalle fiamme, e il racconto fotografico ha la forza di una commozione autobiografica. Esposito oggi ci dice di essere impegnato a raccontare i paesaggi in via di sparizione e ci parla del suo desiderio di specializzarsi quale fotografo documentarista.
Interessante è notare come in questi anni si stiano diffondendo sempre più le mostre di fotografie, che sostituiscono, in certi casi, le mostre di pittura. È semplice osservare che la ripresa della realtà in filmati o in televisione è diffusa più della diretta osservazione del vero, spesso più impegnativa e faticosa.
D’altronde la professione di fotografo documentarista è relativamente recente e ha riguardato fatti eclatanti, come i reportage di guerra affollati da coloro che, a costo della vita, si mischiavano con i soldati. Forse è giusto ricordare almeno il nome di Robert Capa, Il fotografo ungherese naturalizzato statunitense, nato a Budapest più di un secolo fa, nel 1913, da una famiglia ebrea economicamente benestante. Il suo nome significa “squalo” ed è stata un persona con molta passione e molto coraggio. Partecipò a ben cinque eventi bellici con Gerda Taro, sua compagna di vita e di lavoro. Le sue fotografie ricordano lo sbarco in Normandia, la presa di Parigi, gli episodi della Guerra mondiale in Italia e in Sicilia, gli scontri in Spagna e anche le battaglie in Indocina, dove una mina, a Thai Bin (1954) in Vietnam, gli diede la morte facendolo saltare in aria.
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