Le foto di Paolo Mussat Sartor sullo scorcio degli anni Sessanta si inquadravano in una convivenza stabile di affiancamento serrato ai protagonisti dell’Arte Povera, e a autori gravitanti in ambito non solo torinese. Insostituibile la portata testimoniale dei ritratti di severa lucidità resi con tecniche predigitali, alcuni a animare le celebri lastre specchianti di Michelangelo Pistoletto.
Disponibilità intuitiva da fedele sismografo per rilevare le tempeste segniche nei dipinti di Emilio Vedova, angolazioni strategiche nelle installazioni iconiche di Giovanni Anselmo. Un’apertura affrancata dal lavoro parallelo in piena solitaria autonomia di visioni rubate viaggiando in automobile; tagli di Nature (1973) dal nitore iperrealista che inchioda e ingigantisce; Gambe (1992-1993) apparizioni di snellezze filiformi sottratte al buio drammatico caravaggesco.
Nelle foto tra il 1999 e il 2005 selezionate in una mostra che ha appena chiuso i battenti a Torino si affaccia un universo di “figure” femminili incantevole per intensa potente semplicità. Le immagini ritoccate con interventi pittorici di pigmenti a olio a conferma della permeabilità tra linguaggi artistici diventano, in alternativa, volumi puri di corpi materializzati interamente a colpi di chiarore e ombra. A scolpirli sembra il buio, da parte loro emanano una luce soffocata che rende comprensibili nudità misteriose. In pose flesse, ripiegate su di sé, distese, accovacciate. Un gioco elastico di schiene e gambe retrattili di sofficità seduttiva mai sovraesposta con ammiccamenti di senso che le pose potrebbero suggerire.
Donne anonime dal volto celato, spesso forme viste da tergo. Il riuso della statuaria antica di Pistoletto con la Venere Callipigia o “dalle belle natiche” così come l’oscillazione tra “innocenza e peccato” o idealità e realtà, refrain nel mito di Canova, sembrano applicarsi in questo contesto portando argomenti a confronto.
Le “figure” di Paolo Mussat Sartor appartengono a una classicità inventata, ricreata. È come se i corpi ritratti non siano carne e sangue, dotati di luce propria diventano forme luminose senza tempo.
Fotografi italiani della stessa generazione attratti dal paesaggio del nudo femminile l’hanno riprodotto seguendo canoni propri. Franco Fontana l’ha ambientato come effige di bellezza patinata per una pagana gioia di vivere. Lorenzo Capellini evocata la storia dell’arte e l’esaltazione della nudità, accostando per restare in tema canoviano la silhouette di una modella riconoscibile senza veli nella luce cruda a “Le tre Grazie”.
Oltre al chiarore speciale dei corpi dalle foto di Paolo Mussat Sartor nel loro insieme sembra levarsi un discorso silenzioso.
In linea con la rudezza, la responsabilità nell’agire dell’etica calvinista passate in eredità all’Arte Povera e nella poetica di Paolo Mussat Sartor. Con la ferma messa in scena si attende che dal vuoto attorno, dal buio luminoso possa giungere qualcosa.
Nell’assistere allo spettacolo, guardando l’oscurità diventiamo semplicemente parte di questa quiete. Fissando la luce intensa con cui si manifesta la visione improvvisa della Nuda veritas restiamo coinvolti dall’erotismo della sua presenza.
Se con l’avanzare dell’età secondo l’autore non diminuisce la distanza dal desiderio, cresce piuttosto il turbamento per questo nulla incombente manifesto, il suo esatto opposto.
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