In una piccola realtà provinciale, arroccata tra lontani limbi di mare e pietrose terre murgiane, ogni giorno si consumano piccole, grandi storie. Il giovane fotografo Gildo Molinari ci riporta, per immagini, la parabola di Carla Pianetti. Un racconto che narra con coraggio e delicatezza la quotidianità di una donna, dalla prospettiva intima e privilegiata di un amico. In questo periodo in cui si assiste alla riscoperta della fotografia documentaristica, abbiamo intervistato il giovane artista per conoscere meglio questo primo e ambizioso progetto e le motivazioni che lo hanno spinto a intraprenderlo.
Come è nata l’idea di questo progetto?
«L’idea di lavorare a questo progetto nasce casualmente in seguito a un racconto di mio padre, che mi parlò di un certo parrucchiere Carlo, molto famoso tra gli anni ‘80 e ‘90 nel paese in cui sono cresciuto, Santeramo in Colle, in provincia di Bari. Decido di approfondire e scopro Carla Pianetti e la sua storia incredibile: a 60 anni decide di affrontare un percorso di transizione e affermare finalmente se stessa nella società con coraggio e sfrontatezza. Per nulla scontato in un contesto simile. Il lavoro, inoltre, è stato presentato come esame finale durante il mio percorso di studi in fotografia e comunicazione visiva».
Si attribuisce al fotografo Richard Avedon la frase per cui «Un ritratto fotografico è l’immagine di qualcuno che sa di essere fotografato». Come è stato lavorare con Carla Pianetti? Quanto è importante entrare in sintonia con il proprio soggetto?
«Entrare in sintonia con il proprio soggetto per un lavoro di questo tipo è fondamentale. Dopo un periodo iniziale di conoscenza senza macchina fotografica, lavorare con Carla Pianetti non è stato particolarmente difficile, si è subito instaurato un rapporto di rispetto e fiducia reciproca, consolidato nel tempo in maniera naturale e implicita. Sono stato sempre chiaro con Carla Pianetti partendo dal mostrare il mio interesse per la sua storia e il volerla raccontare, onestà e sincerità sono stati fondamentali per la buona riuscita del progetto».
Reportage o spettacolarizzazione, quanto è sottile e labile questa linea?
«La linea credo sia sempre molto sottile e labile, tutto poi dipende dal messaggio che si vuole trasmettere. È molto importante non perdere mai di vista ciò che si vuole raccontare e il modo in cui si vuole farlo, attraverso le immagini».
Quali sono stati i fotografi che hanno maggiormente ispirato la tua poetica artistica?
«Ce ne sono diversi. Fondamentale per la mia formazione è stato il lavoro e la visione artistica di Raffaele Petralla, che ho avuto la fortuna di avere come insegnante. Tra i grandi maestri della fotografia, figurano sicuramente nomi illustri come Bruce Gilden, Martin Parr, Luigi Ghirri, Helmut Newton e Salgado, fotografi con storie e stili molto diversi, ognuno dei quali ha contribuito a plasmare la mia percezione del mondo e della fotografia. Della fotografia mi attrae particolarmente la sua potenza come strumento applicato ai diversi linguaggi. Dal documentario, che funge da mezzo di divulgazione della conoscenza e della storia (i fotografi bellici hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione) fino all’ambito pubblicitario e commerciale».
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
«Mi piacerebbe promuovere questo lavoro insieme a Carla Pianetti e realizzare una sorta di mostra itinerante e sociale partendo da paesi con realtà simili rispetto a quella di partenza, avendo così uno scambio con gli osservatori riguardo al tema. Ho già fatto un esperimento del genere e la risposta da parte dei partecipanti è stata molto interessante: c’erano visitatori eterogenei e si è poi naturalmente aperto un dibattito che ha toccato temi diversi e complessi dalla sessualità alla psicologia. È stato incredibile per me e Carla Pianetti era entusiasta! Inoltre, sicuramente continuerò a cercare storie da raccontare».
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Solo le persone che parlano raramente possono pronunciare frasi così mortalmente semplici.