Categorie: Fotografia

Lo sguardo del gigante sugli uomini: vita e fotografia di Caio Mario Garrubba

di - 25 Aprile 2022

Giacca, cravatta, suole consumate e macchina fotografica, preferibilmente Lieka o Rolleyflex. Così dobbiamo immaginare Caio Mario Garrubba (1923-2015), fotoreporter, napoletano di nascita, che in 45 anni di lavoro ha percorso le strade del mondo in cerca di attimi di umanità. La mostra “FREElance sulla strada” inaugurata al PAN – Palazzo delle Arti Napoli, visitabile fino al 5 giugno 2022, restituisce il ritratto di un gigante del reportage fotografico del Novecento, riportandolo, come dovuto, tra le figure di maggior rilievo della storia della fotografia europea.

Così, dopo aver debuttato a Roma, la mostra arriva a Napoli, con una selezione aggiornata, ma parte da lontano, da quando, nel 2017, l’Archivio Storico Luce / Cinecittà acquisì l’archivio fotografico di Garrubba: si tratta di 60mila negativi e 40mila diapositive prodotte tra il 1953 e il 2000. Tra gli infiniti percorsi narrativi che avrebbero potuto essere rintracciati tra le scatole e i faldoni dell’archivio, Emiliano Guidi e Stefano Mirabella, curatori dell’esposizione, hanno scelto di proporre il ritratto di un fotografo che ha amato la strada, geloso della sua autonomia di osservazione, restìo a lavorare su commissione, preferendo la libertà dell’esplorazione personale al vincolo tematico.

Caio Mario Garrubba, New York, 1970. Archivio storico Luce

Due videointerviste ad Alla Folomietov, moglie di Garrubba (scomparsa nel gennaio 2019), visibili a inizio e chiusura di percorso, chiariscono con immediata semplicità quei tratti caratteriali rinvenibili in ogni scatto: «Amava la strada, dovunque e comunque. Perché, lui diceva, “Io vedo l’uomo così come è solo sulla strada”». Il percorso espositivo non segue un tracciato cronologico, né tantomeno geografico: si passa dalla Cina del ’59 a Città del Vaticano del ’63, dal Brasile del ’58, all’Unione Sovietica del ’64. Piuttosto, si procede, tra le 150 immagini proposte, per assimilazioni tematiche, puntuali sottolineature del modo in cui Garrubba selezionava ciò che vedeva per costruire la fotografia. Napoli, però, ha una sezione a parte, in omaggio alla personale realizzata a Villa Pignatelli nel 1983, ultima mostra dedicata al fotografo nella sua città natale. Ed è in questa sezione che si scavallano gli anni Ottanta e si inseriscono accenti di colore in cibachrome, in una produzione prevalentemente in bianco e nero.

Caio Mario Garrubba, New York, 1970. Archivio storico Luce

Le immagini di Garrubba non esauriscono mai la storia nello spazio di una fotografia: c’è sempre un uomo che esce dall’inquadratura e di cui si intravede solo una parte del corpo, o uno sguardo rivolto altrove, verso pensieri lontani, o un uomo di spalle che funziona da quinta scenica e allo stesso tempo proietta chi osserva verso altri luoghi. Nessun soggetto è in posa, ogni fotografia di Garrubba “accade” e, per questo, esula da qualsiasi staticità. La scansione dei piani nell’immagine è sottolineata dall’intersecarsi di voci e azioni delle persone: è come immergersi in una strada affollata e ascoltare brandelli di discorsi di sconosciuti, dare le spalle al palco dell’autorità in comizio, rivolgere l’obiettivo al pubblico e rendere protagonista chi non fa notizia.

Caio Mario Garrubba, Napoli, Archivio storico Luce

La sua composizione, pur nella velocità di scatto che richiede la street photography, è rigorosissima, mai artificiosa: è il risultato dei suoi studi sull’arte, della passione per la pittura e degli anni trascorsi da visitatore nei musei. Gli ingrandimenti dei provini presenti in mostra su grandi pannelli retroilluminati ci raccontano del processo di selezione e di scarto e simulano il piano luminoso usato dai fotografi per trovare l’immagine perfetta. Un processo che hanno fatto gli stessi curatori Guidi e Mirabella, nel momento in cui hanno deciso di proporre nel percorso espositivo, accanto alle 12 stampe vintage, fotografie inedite e stampate per l’occasione da Fotosciamanna di Sergio Casella.

Il ritratto di Caio Mario Garrubba che ci consegna la mostra è coerente con la sua indole: un fotografo libero che, in più di un’occasione, ha declinato l’invito dell’amico Henri Cartier-Bresson a entrare nella Magnum, la famigerata agenzia di fotogiornalismo, e che non ha ceduto alla tentazione della fotografia pubblicitaria. Pur avendo pubblicato su riviste del calibro di Life, Der Spiegel, Nouvel Observateur, Guardian e fotografato Mao, Ho Chi Minh, Kennedy, Nixon, Chruščëv, il suo metodo di lavoro potrebbe definirsi anarchico e lo racconta Emiliano Guidi nel catalogo della mostra: «Partiva per i suoi viaggi con un paio di macchine fotografiche e scattava con tempi, metodi e soggetti scelti da lui. Quando tornava, stampava i provini a contatto, selezionava le fotografie, ne faceva stampare un centinaio e ripartiva per venderle alle principali riviste straniere». Un metodo di lavoro poco remunerativo e certamente inadatto al raggiungimento della fama, ma l’unico che trovava adeguato alla sua indole.

Caio Mario Garrubba è stato dunque un umanista contemporaneo: ha trattato la gente di ogni luogo come la sua gente, nella quale amava immergersi per riscrivere una Storia fatta di sconosciuti e non più solo di uomini di potere.

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