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L’umanità di Pasolini negli scatti di Cecilia Mangini: la mostra a Corigliano d’Otranto
Fotografia
Prima donna documentarista in Italia, la pugliese Cecilia Mangini (Mola di Bari 1927 – Roma 2021), sceneggiatrice e regista, è stata un’interprete, anche attraverso la fotografia, di quello spirito “di strada” che andava affermandosi a metà Novecento col Neorealismo cinematografico. Cresciuta a Firenze e vissuta a Roma, nel 1958 strinse un sodalizio artistico con Pier Paolo Pasolini, esordendo al cinema con tre importanti documentari in sua collaborazione. A questo incontro poco noto e prolifico è dedicata la ricca mostra “P.P. Pasolini sette scatti – Fotografie di Cecilia Mangini” in corso fino 20 ottobre 2022 al Castello Volante di Corigliano d’Otranto. Mostra prodotta dalla Festa di Cinema del reale e dell’irreale, la cui 16esima edizione si è lì svolta lo scorso luglio con la direzione artistica del regista Paolo Pisanelli, anche curatore insieme a Claudio Domini di questo percorso espositivo.
Pasolini visto da Magini: la mostra
La Festa del Cinema del reale e dell’irreale è un importante festival dedicato al documentario d’autore e alle arti audiovisive e performative che dal 2004 si ambienta d’estate nei più caratteristici borghi del Salento. Cecilia con il suo lavoro – ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica «Per aver trasmesso alle generazioni future alcune delle più belle immagini dell’Italia degli anni ‘50 e ‘60» – ne è stata un’ispirazione e, con la sua assidua presenza per numerosi anni, una motivatrice. Tra quelle rappresentanti di una generazione che si è dedicata a raccontare il reale e la società senza compromessi, come le “colleghe” fotografe Letizia Battaglia (Palermo, 5 marzo 1935 – Palermo, 13 aprile 2022) o Lisetta Carmi (Genova, 15 febbraio 1924 – Cisternino, 5 luglio 2022), profondamente rivolte al Sud, longeve e resistenti, caparbie e storicamente uniche.
Alla fine degli anni Cinquanta, in un mondo culturale declinato del tutto al maschile, Cecilia avviava la sua attività cinematografica, la sua personale “sfida del rettangolo” tra fotografia e cinema, legata alle marginalità del tessuto sociale e alle trasformazioni della società dal dopoguerra. Produzione che conta più di quaranta cortometraggi, a partire dal primo “Ignoti alla città” del 1958, che oggi riscopriamo in occasione del centenario dalla nascita di Pasolini al quale lei si rivolse, ispirata dal suo romanzo d’esordio “Ragazzi di vita” pubblicato appena tre anni prima.
Per girare “Ignoti alla città”, che sarà accompagnato dal testo in terza persona di Pasolini, svolsero insieme dei sopralluoghi per le riprese nelle borgate romane, attraversando le atmosfere della periferia cittadina nel quartiere di Monteverde Nuovo, dove il poeta scrittore allora viveva. Degli scatti realizzati in quel giro con Pasolini, uno venne utilizzato già quell’anno nella rubrica “Il loro primo successo” che Mangini curava per il settimanale Rotosei. Gli altri riemergono dopo oltre sessant’anni grazie al lavoro di Pisanelli e Domini, dapprima nella pubblicazione “Cecilia Mangini. Visioni e passioni. Fotografie 1952-1965” per le edizioni Erratacorrige & Big Sur del 2017, ora esposti per la prima volta al Castello di Corigliano d’Otranto.
Meravigliosi ritratti di un trentaseienne Pasolini, sorridente e profuso in quell’umanità ai margini di cui si è fatto portavoce in gran parte della sua opera. Riprese in medio formato che lo immortalano insieme agli abitanti del quartiere nella desolazione di palazzi in costruzione per la speculazione edilizia, in un mercato rionale e all’interno, festante, di una sala biliardo. Insieme alle fotografie, anche i provini a contatto originali e riproduzioni di documenti dattiloscritti e manoscritti, con appunti, scambi e revisioni apportate alle sceneggiature dei loro cortometraggi. Mangini si relazionerà con Pasolini anche per “Stendalì – Suonano ancora” nel 1960 e “La canta delle marane” nel 1962, con l’intenzione poetica comune di raccontare le disuguaglianze, a Roma come in Salento, con l’evolversi della cultura rituale contadina verso una più misera e devastante cultura industriale consumistica.
La mostra comprende un video recente in cui Cecilia anziana ma vivacissima ricorda e commenta il loro incontro. Da sfondo a questo determinante episodio di vita che omaggia Pasolini nell’anno del centenario dalla nascita, una sezione di altre fotografie con i “Volti del XX secolo” da Chaplin a Fellini, Moravia, Houston e Morante, Perkins, Mangano, Dassin, Zavattini e Pratolini, con cui Mangini ebbe contatto.
Il racconto di un’Italia vera: intervista a Paolo Pisanelli
La sua carriera si è più volte intrecciata a protagonisti della vita culturale italiana in rapporti umanamente forti, come col documentarista romano Lino Del Fra che è stato suo compagno nel lavoro e suo marito; con “Fata Morgana” nel 1961 ottennero il Leone d’oro a Venezia e con “Antonio Gramsci – I giorni del carcere” nel 1977 il Pardo d’oro al Festival del cinema di Locarno. Fino all’incontro con Paolo Pisanelli, col quale dal 2016 dopo una lunga pausa creativa è tornata a firmare gli ultimi tre lavori documentaristici.
Paolo in che circostanze hai conosciuto Cecilia?
«Ho scoperto il suo lavoro nel 2005 attraverso Mirko Grasso, autore di una pubblicazione su “Stendalì – Suonano ancora” con il commento di Pasolini, film dedicato ai canti funebri della Grecìa salentina. Fu una epifania da cui è nata una grande amicizia, la mia con lei e la sua con lo staff del festival. Si può dire che sia mancata forse solo a una o due edizioni dal 2005 al 2020. È stata per noi una colonna! Cecilia ci ha aperto gli occhi su paesaggi invisibili, a partire dai diritti delle persone, delle donne, dei lavoratori, del Sud. Ci ha aperto gli occhi sulla voglia di combattere la miseria attraverso la magia del suo fare cinematografico artistico e umano.
Siamo diventati nel tanto compagni di avventure cinematografiche, in giro dal Canada all’Iran passando per Parigi, Berlino, Vienna. Siamo andati in diversi paesi e nel primo anno del Covid saremmo dovuti andare in Argentina a Buenos Aires, in Cina a Pechino e in Corea del Sud e a Taiwan, ma purtroppo non è stato più possibile».
La sua biografia registra alcuni passaggi importanti e curiosi, come la ripresa del suo lavoro da documentarista da ultraottantenne dopo numerosi anni di fermo. Insieme avete codiretto documentari cortometraggi, com’è stato collaborare appartenendo a generazioni così lontane? Avete condiviso un modo di fare cinema?
«Per quanto avesse continuato ad affiancare Lino come in “Comizi d’amore ’80”, che seguiva di quasi vent’anni nel 1982 il film inchiesta omonimo di Pasolini, l’ultima regia di Cecilia era stata nel 1973-74. Ha ripreso poi nel 2013 con “In viaggio con Cecilia” sulla situazione dell’Ilva di Taranto, codiretto con Mariangela Barbanente. Io e lei abbiamo iniziato a collaborare nel 2016, intanto per la realizzazione della sua prima mostra antologica, curata sempre da me e Claudio Domini e poi per i film “Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam” del 2020, “Grazia Deledda la rivoluzionaria” del ’21, fino a “Il mondo a scatti” che ho finito senza di lei, quando è mancata era montato all’80%.
Il nostro modo di fare cinema però era diverso, lo abbiamo condiviso ma rispetto a me lei era abituata a una grande sintesi e a lavorare per mettere in scena la realtà, come quasi fosse finzione. Si nota nei cortometraggi che consideriamo in questa mostra, “Ignoti alla città”, “Stendalì” e “La canta delle marane”. Si intuisce la forza che aveva nel dirigere bande di ragazzini oppure le signore, le professioniste del sacro che piangevano la morte di un giovane sedicenne… in questo caso, per capirci, il morto era non era morto, anzi era un ragazzo che rideva durante le riprese e che, a quanto raccontava, l’aveva fatta un po’ disperare. Riferisco un aneddoto: dopo tanti anni, a Lecce, si è slanciato verso di lei in un abbraccio un uomo che Cecilia non ha riconosciuto, “sono il morto” aveva detto! Era proprio lui che interpretava il ragazzo compianto in “Stendalì”, lavoro in cui aveva proprio messo in scena il rito».
Il solco che ha tracciato, usando le sue parole, di racconto dell’“l’Italia vera” ti rispecchia nel tuo lavoro da regista?
«Per Italia vera intendeva un’Italia popolare, che appartiene a chi non ha voce e io sento di stare su questa linea, in questo siamo stati vicinissimi. Diceva di aver amato molto i miei lavori “Ju Tarramutu” del 2011 e “Buongiorno Taranto” del 2014, dove ho raccontato L’Aquila e Taranto, entrando in zone in cui non si poteva entrare e attraverso le storie degli abitanti, protagonisti della vita di quelle città e che hanno poi abitato i miei film. Questa Italia vera è per me un’Italia reale ai confini della realtà».
Cecilia con Pasolini prese contatti non mediati ma cercandolo nell’elenco telefonico di Roma e si sviluppò tra loro una condizione subito operativa. Emerge dalle fotografie un inedito Pasolini, dov’è secondo te la forza di questi scatti?
«Cecilia era inarrestabile. Pasolini è stato visto fotografato in 100 modi diversi in questo anno di sue celebrazioni ma in questi scatti salta la distanza tra loro, tra il soggetto fotografato e la fotografa, dove c’è invece una vicinanza fortissima che si sente anche nei cortometraggi.
La Mangini viene ricordata soprattutto per “All’armi siam fascisti!” del 1960, un film peraltro eccezionale realizzato con il suo Lino Del Fra e Lino Miccichè in cui si parla del ‘fascismo eterno’, per dirla come Umberto Eco. I tre documentari con Pasolini sono altrettanti capolavori del cinema documentario italiano.
Credo che questa mostra sia originale, tanto per il bellissimo lavoro di allestimento fatto da Francesco Maggiore e Efrem Barrotta di Big Sur, quanto originale anche per il modo in cui le fotografie incontrano i testi, uno scambio vivo tra le parole che rincorrono le immagini dei film oppure le anticipano».