Emmanuel Radnitzky (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976), al secolo Man Ray, e la donna. La donna come soggetto delle sue fotografie e geniali composizioni, e la stessa donna come autrice e fotografa, all’epoca di Man Ray, nell’entourage surrealista dei primi decenni del secolo scorso.
Questo il tema della mostra “Wo. Man Ray. Le seduzioni della fotografia” inaugurata poche ore fa a Torino, forse una delle più belle realizzate da Camera in tutta la sua vicenda espositiva fino ad oggi. Un evento che, nell’attuale – e spesso ahimé sonnolente – contesto culturale e artistico torinese, rappresenta una vera e propria boccata d’ossigeno.
La mostra, visitabile fino al prossimo 19 gennaio, si snoda in un percorso espositivo molto curato e logico. Così, se nelle prime due sale abbiamo l’occasione di conoscere gli autori e le autrici protagonisti della mostra – lo stesso Man Ray, Berenice Abbott, Lee Miller, Dora Maar e Meret Oppenheim, così come i protagonisti del periodo storico in cui tutti loro vissero, tanto brulicante di novità e idee dal punto di vista artistico e culturale, quanto drammatico dal punto di vista storico e sociale – nelle successive il lavoro e la riflessione sulle immagini diventa centrale.
Lungo le pareti delle sale, conosciamo e approfondiamo anche il modo in cui Man Ray lavorava, la tecnica con cui egli tagliava e realizzava le immagini a partire dai negativi, così come la ricerca dal punto di vista culturale e artistico: sono forme, contenuti, corpi, oggetti, visioni.
Dai corpi agli oggetti, dalle immagini costruite in maniera tradizionale alle sperimentazioni più estreme, dagli objets qui rêvent di stampo dada, fino alle riflessioni sulla bellezza nel senso più pervasivo, giungiamo infine alle serie immagini esposte lungo il corridoio di Camera, che lasciano spazio ai due progetti specifici, pervasi di ironia e bellezza insieme: The Fifty Faces of Juliet (1941 – 1955) e La mode au Congo (1937).
La qualità delle immagini esposte è totale. Sono presenti diversi lavori storici, come Le Violon d’Ingres (1924) e Noire et Blanche (1926), fino ai famosi ritratti di Tristan Tzara e Marcel Duchamp, solo per citare alcune immagini famosissime.
L’interesse della mostra è ancora più ampio e si rivela proprio nell’intenzione di allargare la visuale al lavoro delle fotografe che con Man Ray si trovarono a lavorare e interagire, nel doppio ruolo di soggetto fotografato, da Man Ray, e di autore di opere proprie di indiscusso valore. Dove la donna è soggetto, dove il corpo femminile è al centro della rappresentazione, salta agli occhi lo sguardo denso di erotismo, ma mai volgare con cui le donne sono ritratte.
Ma, al contempo, la qualità autoriale e autorevole dei lavori fotografici di alcune delle protagoniste della fotografia del ‘900, come Abbott, Oppenheim, Miller e Maar appare evidente e intensissima. La sola carrellata di ritratti realizzati da Abbott mette i brividi. Ci sono tutti, o quasi: Cocteau, Joyce, Atget, Gide, Stein. Volti significativi, giganti della letteratura, del cinema, della fotografia, dell’arte.
Il sospetto è che quel periodo storico abbia molte cose da insegnarci, e che lo studio degli autori e degli artisti di quel periodo sia ancora decisamente fecondo e denso di possibili sviluppi e conseguenze.
Probabilmente, anzi, il senso profondo di questo evento espositivo giace anche nell’attualità della poetica surrealista e dadaista per noi, abitanti del XXI secolo. L’inventiva, la capacità critica, insieme di osservazione e messa in discussione delle manifestazioni culturali della propria epoca, tipiche degli artisti di quei tempi e così rare ai giorni nostri, sono qualità di cui avvertiamo, al presente, una necessità profonda.
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