Il memorizzare un istante, imprimerlo, fermare la realtà in un attimo eterno, è l’essenza stessa della fotografia. Il percepirne, il ricercarne la storia di chi l’ha scattata, la sua personalità, la sua realtà sono gli aspetti di particolare interesse, attorno ai quali si incentra il lavoro dell’artista tedesco Joachim Schmid, per la seconda volta ospite della galleria P420 con una mostra personale, intitolata “Photoworks”.
“Nessuna nuova fotografia finchè tutte quelle esistenti non siano state utilizzate”, è la celeberrima frase che Schmid pronuncia nel 1989, come manifesto del suo lavoro, della sua poetica.
All’interno dello spazio espositivo trovano vita diverse serie di opere, tutte caratterizzate da quel senso di ricerca appassionato, meditato, cercato o, in molti casi trovato nei mercatini dell’usato, per strada. Al centro della prima sala, il lavoro dal titolo Sulla teoria della fotografia (1986), ne è una conferma: posto in una teca, lo scatto del retro di alcune fotografie scelte in un mercatino, riportanti scritte redatte dagli ex proprietari. Per l’artista queste frasi rappresentano una base per una prima teorizzazione della fotografia popolare. Il rapporto tra quest’ultima e l’uomo, tra il fissare lo sguardo attraverso l’obiettivo sulla pellicola, è una ricerca antropologica, uno scavare attraverso la natura umana per comprenderne le emozioni, i momenti, la vita vissuta e immortalata.
Una ricerca attenta, anche se casuale, al fine di non perdere pezzi di vita, usi, mentalità, raccogliendo sguardi comuni, di fotografi non baciati dall’immortalità della fama. È proprio ciò che trapela dai due lavori presenti in mostra: R.Flick Collection (2017) e Bilder von der Strasse (Fotografie dalla strada) (1982-2012). Nel primo Schmids associa ad alcuni scatti presenti sul web i nomi di grandi fotografi, attribuendone una similitudine nello stile; nel secondo presenta il frutto di un lungo lavoro, durato circa trent’anni, iniziato quasi per scommessa. Mille foto e frammenti di foto trovati e catalogati cronologicamente attraverso l’annotazione della data e della città luogo del ritrovamento. Un archivio di sguardi, sorrisi, momenti dimenticati, persi per sbaglio o volutamente strappati. Un’indagine introspettiva, meticolosa, seppur accompagnata dal caso, trapela dall’osservazione delle foto che si susseguono lungo il perimetro della seconda grande sala della galleria e, contestualmente vengono proiettate attraverso un video riprodotto sulle televisioni poste nel fondo della sala stessa. Ed è proprio nel susseguirsi dei passi, che si avverte e diventa palpabile quel profondo senso di cura verso il dettaglio, verso un particolare apparentemente lontano e ormai privo di significato, di cui come dice l’artista stesso: “Tutto quello che so di loro è il luogo e la data del ritrovamento, il resto è immaginazione”.
La fotografia, dunque, come mezzo per descrivere la società, per invitare lo spettatore a gustare realtà immobili e dorate come quelle di una vacanza in coppia sotto un sole meraviglioso (Meetings 2003-2007), ma anche come, in The Artist’s Model, 2016, strumento per scoprire un mondo di sensualità e bellezza come quello della donna.
L’elaborazione della fotografia consente di riscoprire nuovi punti di vista, trame di un’opera dadaista, come in Statics (invitation crds for art exhibitions), 1996. La tecnica artistica applicata da Schmid genera nuovi patchworks, dall’unione delle sezioni ottenute, mescolandone i colori e creando una nuova immagine, che ricorda la visione dello schermo di vecchi televisori analogici, in mancanza di segnale. Come sostiene da Mauro Zanchi “Non viene decostruita la visione retinica messa in discussione da Duchamp, ma reso percepibile il residuale, il rumore di fondo delle innumerevoli immagini che attraversano i nostri occhi ogni giorno. Quindi, in questa metamorfosi del visibile quotidiano in decostruzione astratta prendono corpo diverse texture caratterizzate da differenti toni cromatici, dovuti ai soggetti di partenza presenti nelle immagini.”
Nell’opera Il Mare (2019), Schmid associa il moto perpetuo delle onde a un testo di un libro trovato in un mercatino, creando una dolce melodia tra parola e immagine, sinuosità delle onde e morbidezza della parola stessa. Un’esperienza multisensoriale dove il tutto sembra convergere verso l’unità del linguaggio, del messaggio, dei mezzi espressivi.
Presente in mostra una sezione dedicata ai libri scritti dell’artista tedesco, che ne dimostrano una proficua e lunga attività oltre che come fotografo, anche come saggista ed editore. Uno degli esempi più rappresentativi è la rivista Fotokritik (1982), da lui fondata e autoprodotta, testata per la divulgazione delle sue teorie e pensieri sulla fotografia, portavoce della propria ispirazione, delle proprie idee, dei propri collegamenti mentali.
Il senso universale della fotografia, i messaggi che nasconde e porta con sé, svelano tutta la potenza di un mezzo espressivo che sin dalla sua nascita ha saputo farsi mezzo di espressione di una realtà viva e reale conservandone l’unicità dell’istante scelto, seppur avvolto nel senso del mistero.
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