Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Angelo Cricchi.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«L’arte, e la creazione di bellezza in generale, è un atto politico. Serve, quando è arte, ad anticipare le tematiche, ad ispirare le generazioni future, o quanto meno a far star bene ed a dare momenti di felicità astratta.
D’altro canto l’arte per chi la fa è una necessità, un bisogno, un imperativo. Spesso connaturata a patologie, devianze, meschinità, eccessi, o quantomeno egoriferimenti e bisogno di riconoscenza. La maggior parte degli artisti che conosco sono umanamente peggiori delle loro opere. È il punto di chi la “subisce” che è interessante. L’artefatto una volta uscito dall’autore prende percorsi misteriosi ed entra nella vita delle persone in maniere inaspettate e sublimi che nessun ufficio stampa può gestire fino in fondo».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Partiamo da un principio. Io tendo a non qualificarmi in quanto artista ma eventualmente mi ritengo un autore. Cioè non cerco di innovare ma di proporre un “artefatto” di qualità, come un ebanista od un liutaio.
Detto questo, io mi occupo principalmente di miti archetipi. Quelli propri della nostra cultura. I miei sono angeli, madonne, maddalene, cristi velati, e poi satiri, ninfe, Arianne, e tutto quello che Shakespeare ha sfornato. Li spargo a caso in tutti i miei lavori, che siano commerciali, editoriali o produzione artistiche, talvolta evidenti, talvolta sottotraccia. Sono didascalico, letterario, pedante. Credo nella fatica, nell’onestà del lavoro lungo, pensato, prodotto con fatica e tempo. Detesto il pressappochismo e la banalità, la retorica e la saggezza. In generale chiunque abbia trovato una risposta. Quindi la mia è esplicitamente una identità scomoda di cui mi sono preso ampiamente le responsabilità».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Nell’incipit al profilo del mio studio su IG c’è scritto “non cerco follower e non preparo moodboard”. Ciononostante sono un esibizionista (e non affatto un vouyer). Mi piace stare al centro delle cose, più come genius ex machina che come front man. Questo ha comportato una serie di misunderstenning sul mio lavoro e la mia opera ed ha fatto in modo di stare sui coglioni a buona parte delle persone che incrociano il mio nome. D’altro canto è stato anche un ottimo filtro per selezionare chi mi sta intorno e va oltre l’incipit».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Creare network e lavorare con gli altri. Da circa dieci anni mi rappresento come direttore creativo. Dirigo due magazine che attraverso i media di arte, fotografia, moda, poesia e scienza cercano di raggiungere finalità sociali. Dirigere creativamente significa immaginare qualcosa che io od altre persone, metteranno in scena.
Condividere idee e mezzi. Il rapporto tra immagine ed atto è quello che mi interessa maggiormente. Passare dall’ispirazione alla realizzazione. Ho grandissimi limiti nel processo seguente (scegliere postprodurre, divulgare). Quello che si chiama difesa dell’opera. Una volta ideata e poi realizzata la mia fase è conclusa. Potrei anche non vedere le immagini. Addirittura potrei non mettere la scheda/film nella macchina».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Io lavoro h24. Leggo moltissimo, scrivo, viaggio, guardo, prendo appunti. Ogni momento della mia vita è strettamente correlato al lavoro. La contaminazione ed il travaso tra vita ed opera credo sia la maggior fonte di soddisfazione ed al contempo di sofferenza di un artista. Poi un fotografo (e ritengo fotografi propriamente detti solo quelli che si occupano di esseri umani) ha bisogno del contatto con gli altri. Devi sceglierli, cercarli, convincerli, emozionarli, dirigerli ed assecondarli. Cercare luoghi, volti, luci, ininterrottamente rovinando vacanze, scampagnate e nottate d’amore. Avere bisogno di illuminazioni che non illuminano niente se non il nostro percorso. Quello che ne pensano gli altri, più tempo passa più diventa irrisorio».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Non avrei voluto niente di diverso di quello che ho fatto, solo avrei voluto farlo meglio».
Angelo Cricchi nasce a Roma nel 1961. Dopo una lunga carriera da atleta professionista, la vita e la passione lo portano a esplorare i territori della moda e dell’arte contemporanea. Nel 1997, con Susanna Ferrante, ha dato vita a Lost&Found, casa di produzione e fucina culturale, attiva in tutti i campi della fotografia. In seguito, a partire dal progetto Gloomy Sunday presentato al MAK di Vienna nel 2009, la sua ricerca si è indirizzata verso la fine art photography. I suoi lavori sono stati esposti in musei e istituzioni private in Italia, Olanda, Francia e Austria. Angelo Cricchi è editor-in-chief di IRÆ (this is not the end) e creative director del progetto editoriale FLEWID-the book.
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