Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Vittoria Becchetti.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Il mio percorso nell’ arte non è proprio un modello accademico esemplare di riferimento per fortuna; credo che sia proprio grazie a questo che io non abbia sentito il peso di definirmi o contenermi e che inconsapevolmente sia arrivata ad una collezione esperienziale e conoscitiva aperta ad ogni forma e linguaggio, guidata esclusivamente dal desiderio infantile di abbandonarmi all’ amore crudo delle mie idee e curiosità senza alcun secondo fine. Ho sempre sentito l’esigenza di dare vita a ciò che è inanimato e donare senso e bellezza a ciò che ne è privo, è la velocità di pensiero e la contaminazione di più stimoli e memorie audiovisive (e non solo) interne nelle nostre stanze mentali spesso a dare vita ad un’idea, per quanto mi riguarda.
Io amo la messinscena, il movimento, il ritmo, la luce e sono molto sensibile e legata all’ utilizzo del suono. La mia rappresentazione dell‘arte è un essere ibrido che prende vita grazie alla contaminazione di vari linguaggi, performance teatrale, la sperimentazione audiovisiva, il suono ed il cinema sperimentale. Più vado avanti e più desidero creare esperienze anziché opere intese come proiezioni che rendono un pubblico passivo davanti ad un oggetto immobile. Non vorrei più limitarmi al video o al cortometraggio come mezzo di espressione tanto che ho scritto nuovi progetti immersivi, show e allestimenti che coesistono insieme a varie forme d‘arte per i quali spero presto di trovare possibilità di realizzazione.
In ultimo credo che noi stessi dovremmo essere rappresentazione di arte; un artista, se lo è veramente, ha una sua unicità riscontrabile in ogni piccola cosa che lo riguardi, il suo modo di approcciare la vita, il suo alfabeto e sfumature che inevitabilmente fanno la differenza».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La mia identità è un’identità multiforme, tagliente e sfuggente, carica di una grande luce e sempre accanto alle minoranze, pronta ad immergersi nella complessità di casi irrisolvibili e ad indagare ciò che in superficie non è visibile per poi rappresentarlo con i mezzi a me più affini o semplicemente disponibili.
Amo la trasparenza, disorientare il pubblico e obbligarlo in qualche modo a camminare dentro a delle ferite che prendono vita follemente con i miei lavori, ferite che reputo essenziali per evolversi e prendere consapevolezza di molte cose.
Non è importante ciò che sono ma ciò che sono capace di lasciare e cambiare nella vita di una persona, anche solo una in qualche remota stanza in un angolo sperduto nel mondo.
Una volta, anni fa, dopo aver proiettato un mio video durante l‘ Internet Festival di Pisa, si sono avvicinati tre ragazzini, età quattordici credo o poco più, due ragazzi e una ragazza, la ragazza si avvicinò con le lacrime e mi ringraziò, dicendomi di averle fatto capire molte cose. Da lì a seguire, domande da parte dei suoi amici, di una sensibilità e intelligenza incredibile, notarono e capirono cose che nemmeno colleghi del mio settore sono stati capaci di cogliere. Quell’evento mi ha fatto capire realmente il senso della mia ricerca e del mio ruolo».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Detesto l‘ apparenza e non la reputo assolutamente importante, (anche se sono consapevole di quanto sia il contrario per il 99% là fuori) la maggior parte delle persone che se ne servono è perché non hanno un valore reale, di conseguenza altre possibilità per tentare di essere credibili. Provo molta compassione per queste persone e ce ne sono moltissime…Ammetto però che purtroppo siamo immersi in una società ormai talmente mediocre che nella punta della piramide abbia ben radicato come valore il potere, essere o sembrare di essere… Comprendo filosoficamente il fatto di non accettare di essere nessuno e morire come un numero qualsiasi; è una delle più grandi debolezze dell‘ uomo ed è anche comprensibile, ma servirebbe molta più autocritica e umiltà.
Io parto dal presupposto che siamo niente e dietro ad un bellissimo abito, un buonissimo profumo, del bon ton, delle referenze assai alte o ruoli sociali elevati siano nascosti sempre e solo organi, cellule che invecchiano ad una velocità incredibile e corrente elettrica. Il potere è illusorio, una proiezione che ha una valenza esclusivamente in un determinato tempo e spazio. Il nostro è un risultato, siamo una composizione che ha dato vita ad attori partecipanti e non, alcuni con talento altri no, alcuni nati per cambiare le sorti e altri impegnati a giustificare la propria esistenza cercando di dimostrare di essere migliori o importanti. È molto imbarazzante e triste.
Poiché puoi avere i soldi che vuoi, le conoscenze, una carriera già segnata perché nato in una determinata posizione sociale o famiglia agiata ma sempre niente sei. Se pensiamo alle rocce o ai fossili, hanno una durata di vita millenaria, la nostra è una scossa resa visibile da un circuito che ci siamo creati per dare un senso alle nostre vite. L‘ uomo non vorrebbe mai trovarsi di fronte alle proprie debolezze e tantomeno renderle visibili agli altri, questa sarebbe una vera e propria rivoluzione. Per cui reputo importante essere e mostrarsi per ciò che si è e accettarci per quello che siamo senza per forza doverci proiettare in ruoli o figure che vorremmo ma che in realtà non ci appartengono.
Io mi reputo una persona fortunata poiché non ho bisogno di fingere o apparire per relazionarmi, introdurmi agli altri o in contesti pubblici/lavorativi.
Inoltre credo che non siano le referenze e i titoli di studio a rendere importante o più rispettabile una persona; conosco molti laureati/e o figure professionali incapaci totalmente di qualsiasi forma di ragionamento, per niente brillanti e privi di talento, come conosco persone con la terza media o uscite dal carcere che dentro le loro case anguste hanno biblioteche intere e scaffali infiniti con tutta la storia del cinema all‘interno. Io rispetto molto queste persone perché sono spinte dalla curiosità e dalla passione reale pur non avendo avuto grandi vantaggi e possibilità nella loro vita».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«La questione della rappresentazione nell‘ arte è un argomento complesso e da trattare con delicatezza in questo periodo storico. Credo che ci sia una grande confusione sul valore della rappresentazione e sul riconoscimento dei nuovi linguaggi digitali. Per quello che penso sono certa che un artista, indipendentemente dal mezzo e il linguaggio che scelga di usare per esprimersi, debba avere una unicità, una riconoscibilità anche se discutibile o non condivisibile universalmente ma capace di diversificarsi. L‘ ossessione di inventare qualcosa di nuovo non credo che sia un atteggiamento sano, solitamente chi riesce ad essere innovativo spesso non ne è nemmeno consapevole, è un dono, per questo ci sono i geni o quelle menti luccicanti e intuitive che in maniera del tutto istintiva e pulita danno vita ad un qualcosa al quale nessuno aveva mai pensato prima o lo narrano in altro modo.
Trovo ridondante giocare con il passato e le vecchie iconografie, come trovo stupido attribuire un valore artistico ad una creazione digitale soltanto perché è stata realizzata con i nuovi linguaggi digitali. Siamo in un periodo storico molto complesso e noto che ormai, purtroppo, l‘ arte sia diventata soltanto una questione di mercato, un prodotto da confezionare e da vendere. Pochi sono quelli che realmente trattano tematiche contemporanee con un linguaggio ben riconoscibile e pochi sono gli artisti che veramente fanno la differenza».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Io mi definisco un artista ai miei occhi e sicuramente molto più artista rispetto a tanti che si definiscono artisti agli occhi del mondo. Ho sempre fatto scelte rischiose e intrapreso percorsi per niente idilliaci anche solo per arrivare a produrre un mio lavoro e le conseguenze, negative o positive che siano, filtrano nella la tua vita condizionandone ogni aspetto. Se arrivi a questo, al sacrificio, alla scomodità, ad accettare delle perdite e a vivere sempre sopra ad un sottile filo sospeso in aria è perché hai bisogno di essere ciò che sei e di creare indipendentemente dalle finalità.
In questo periodo sono concentrata sulla scrittura di un mio mediometraggio sperimentale e dico sempre di avere già tutto il film in testa; è come avere uno spartito musicale che suona nella tua mente. Addormentarsi e svegliarsi così, alla fine ti rende pazzo se non esterni il suono. Produrre, creare, dovrebbe essere un’esigenza per un artista. È un qualcosa che non si può controllare e se non riusciamo a farlo stiamo male».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Jimi Hendrix. Non era un uomo o un musicista ma un flusso di energia non terreno».
Vittoria Becchetti è una videoartista e regista di cinema sperimentale. Il suo percorso inizia partecipando a esposizioni di arte contemporanea digitale con opere fotografiche che indagavano ipotesi di un’umanità futura. Negli anni successivi matura l‘esigenza di produrre opere in movimento e inizia a sperimentare con il linguaggio del video. Nel 2009 venne selezionata al MUV FESTIVAL, un Festival di Video arte e Musica elettronica di Firenze, con il suo primo video sperimentale dal nome TECHNOLOGY TO RELIVE.
Inizia a lavorare come scenografa video per spettacoli contemporanei autoriali nei circuiti teatrali collaborando anche con l‘artista digitale Giacomo Costa al Teatro della Pergola di Firenze e a curare la regia di cortometraggi indipendenti. Successivamente vince una residenza artistica per affrontare le tematiche legate alla realtà virtuale, tramite un bando indetto dalla Regione Toscana dal nome “Storie dall‘altro mondo”, in collaborazione con La Jetée di Firenze. Grazie a quella residenza, a distanza di un anno, scrive la sua prima esperienza in VR tratta dal suo cortometraggio I AM |A|, con il quale ha ricevuto il primo premio come miglior film d‘arte nel 2021 al Festival di Cinema Indipendente di New York e una Menzione d’onore da parte del VAEFF, sempre a New York.
Nel 2018 dopo aver vinto un master in Multimedia design e Fashion film presso la Fondazione Fashion Research Italy di Bologna inizia anche a collaborare come regista per fashion film. Attualmente freelance porta avanti la sua duplice strada sia nel mondo della sperimentazione audiovisiva che nel settore della moda.
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