Categorie: Fotografia

Other Identity #116. Altre forme di identità culturali e pubbliche: Vincenzo Palladio

di - 15 Giugno 2024

Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Vincenzo Palladio.

Other Identity: Vincenzo Palladio

Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?

«Se si intende il termine arte nella sua accezione post moderna, la sua rappresentazione deve esigere una Visione, che stravolga il significato convenzionale della forma di una composizione, di un soggetto; in un’immagine detta “artistica” la realtà naturale dovrebbe essere trasfigurata in realtà poetica sempre secondo il proposito di Novalis di “conferire al comune un alto significato, al quotidiano un aspetto misterioso, inquietante, al finto la parvenza dell’infinito.” Se, a partire da quella dell’Ottocento fino a quella attuale, l’arte è piena di riflessioni concettuali filosofiche, politiche, linguistiche e antropologiche, perdendo così il precedente stato tradizionale di valori simbolici cultuali, la Visione deve riacquisire necessariamente un proprio grado di dichiarazione duttile ed eterogenea per chiunque ne fruisca. È una legge: deve verificarsi e accadere anzitutto la comunicazione, poi il pensiero».

Vincenzo Palladio, Autoritratto 2020 (30×45)

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?

«L’identità è essa stessa la ricerca per cui tendo ad impegnarmi, sia in fotografia che in teatro. Malgrado le diverse convenienze, i diversi ruoli e i diversi status che la realtà odierna ci presenta e/o ci sollecita di ottenere, credo che per un uomo o per una donna le possibilità d’identità possano essere infinte, varie e plurime. La ricerca di un’identità più autentica e affine a ciò che il sistema richiede, unica e univoca, è la condotta per cui tutti siamo nati e portati ad eseguire. Ritengo la mia identità eteronima; appartiene all’individuo fuori da sé stesso, appartiene ad un’individualità compiuta da lui stesso, “come sarebbero i discorsi di un personaggio di un suo dramma qualsiasi.”. L’opera di un’identità eteronima sarebbe appunto realizzata dall’autore che si pone al di fuori di sé stesso ma che firma con il suo vero nome: in questo caso Vincenzo Palladio».

Vincenzo Palladio, Autoritratto 2023 Fotografia digitale medio formato

Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?

«Vivo per e in prestazione, sia in termini sociali che in termini lavorativi. Ciò che realizzo, sia in fotografia che per il teatro vive per e con il pubblico. Ciò determina una necessità primaria: interrogarsi su chi fruisce e comprenderne i cambiamenti, le abitudini, il pensiero. E se “[…] senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere […]” allora tutto ciò che potrebbe essere direttamente vissuto si traduce in rappresentazione, quindi apparenza».

Vincenzo Palladio, Baptismo, 2021 Fotografia digitale medio formato

Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?

«I nuovi valori di rappresentazione stanno conducendo le arti al definitivo annichilimento della creatività e della cosiddetta “firma d’autore”, della rappresentazione stessa e dell’artigianato. A partire dal parassitismo dell’intelligenza artificiale che si sta verificando all’interno del mondo della fotografia: l’ultima frontiera, al momento, è quella di cui tutti parlano, ovvero la possibilità di generare “incredibili” immagini solamente descrivendo ciò che desideriamo vedere. Più siamo bravi e precisi nell’inserire i dati e più il risultato sarà estraordinario. Aberrante la considerazione di un articolo di Mare Mosso che parla dell’AI come un “conseguente passo evolutivo naturale”, comparando le fotografia dell’AI agli esperimenti artigianali di manipolazione in camera oscura di Daguerre e Bayard.

Non si considera che quelle immagini, benché manomesse, sono frutto di un lavoro prodotto dalla creatività (quindi ingegno) e manodopera di un uomo, frutto di ideologie avanguardistiche che stavano portando la fotografa all’interno della arti, non di un sistema informatico precostruito. Etimologicamente: il termine fotografia deriva dal greco antico, phôs cioè luce e graphè, scrittura; significa letteralmente “scrittura di luce”.

L’Ai non scrive con e di luce ma mediante un’imitazione della luce, contraffatta a tutti gli effetti, preordinata da dei dati informatici; la macchina fotografica vede oltre lo sguardo del fotografo, porta la luce là dove ci sono solo ombre e viceversa. Inoltre, si mette in discussione anche la necessità dell’abilità tecnica che fa di un fotografo un professionista. La fotografia propone un rapporto diretto e trasparente con la percezione, o meglio, con gli oggetti della percezione. Ci obbliga a considerare il mondo secondo un dato oggettivo della percezione umana. Ci si è imbattuti per così tanto tempo affinché alla fotografia fosse conferita un’ontologia all’interno della storia e delle arti tutte.

Non c’è futuro che teme il passato e per quanto il progresso faccia dell’uomo L’animale razionale, egli dovrà sempre preoccuparsi della sua preminenza rispetto a ciò che inventa, realizza, scopre. Credo nel presente che insegue il passato».

Vincenzo Palladio, Epilogo, 2021 Fotografia digitale medio formato

ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?

«Per rispondere a questa domanda devo necessariamente rifarmi, anche forse un po’ banalmente, alle parole della grande maestra Tina Modotti, la quale scrisse un articolo pubblicato su Mexican Folkways nel 1929 durante il momento più acuto della sua vita in cui attività fotografica e impegno politico viaggiavano all’unisono: “Mi considero una fotografa, niente di più”.

Vi è solo un dissenso nei riguardi della sua teoria: essa non ha saputo riconoscere la fotografia se non come manifestazione della neonata civiltà meccanica, senza considerare le sue possibilità espressive, ritendendo “miopi” coloro che si battevano per l’idea che una fotografia potesse essere un’opera d’arte comparabile con “le altre creazioni plastiche”. Poco importa se la fotografia è arte o no: ciò che importa è ben sapere che questo mezzo sarà lo strumento più eloquente per fissare, documentare e registrare le nostre epoche e le loro conseguenze.

La fotografia è altamente politica, ciò che si può mostrare attraverso un’immagine è la conseguenza o la testimonianza storica e antropologica di un certo periodo, di un certo anno, di un certo conseguente impatto soggettivo di avvenimenti legati alla globalità. Non credo di potermi reputare un artista, solo un ottimo e stravagante fotografo».

Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?

«Scrissi tempo fa ad un’amica: “Ma non sono Dio, nonostante tenta di raggiungerlo, lo ammiri, lo ambisca… poter considerare l’eternità come una scelta necessaria e inequivocabile, non vivere, non morire, esistere senza attesa, per tutti i tempi e per tutti i luoghi, senza una durata, come raggio, come spettro”».

Vincenzo Palladio, Noli Me Tangere, 2022 Fotografia digitale medio formato

Biografia

Vincenzo Palladio nasce in Puglia. All’età di 13 anni scopre la fotografia che sviluppa da autodidatta in un percorso di ricerca e pratica che lo accompagnano ancora oggi. Dopo una serie di incontri relativi alle arti visive decide di specializzarsi in fotografia di nudo, ritratto ed autoritratto con cui lavora ed espone sia da freelance che su commissione. I vari influssi artistici lo tengono costantemente in dialogo con la drammaturgia e la recitazione. Attualmente lavora, studia e vive a Roma.

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