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Other Identity #120, altre forme di identità culturali e pubbliche: Catia Simões
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Catia Simões.
Other Identity: Catia Simões
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Ho cercato di creare un ambiente sicuro per me stessa attraverso la mia arte. Quando l’ho fatto, la mia percezione del mondo era molto sbilanciata. Mi ero persa e stavo affrontando il mio disturbo di panico e per caso ho creato qualcosa di tangibile. Il modo in cui mi sentivo non è mai cambiato, ma il modo in cui vedevo l’arte sì, perché attraverso la fotografia ho incontrato persone che stavano attraversando la stessa cosa e che hanno trovato conforto nell’arte come me. E questo è successo solo quando ho iniziato a condividere i miei autoritratti. In altre parole, quando ho deciso di condividere ciò che mi feriva. Il mio lavoro è un riflesso di ciò che trabocca ed echeggia nel mio corpo e nella mia mente. Sono più consapevole del mio dolore e cristallizzo questo tumulto emotivo attraverso la fotografia».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Ho scoperto la mia identità durante gli anni in cui mi sono fotografata. Credo che il mio lavoro in generale possa essere inteso come dolore e paura in cerca di una via d’uscita. Per anni la fotografia mi ha costretto ad affrontare le mie più grandi paure. Ma è questo che mi ha fatto andare avanti. Quando cercavo di salvarmi da me stessa e non ci riuscivo, la fotografia mi ha aiutata a farlo. Ecco perché vorrei lasciare “tracce” e vorrei far emergere col mio lavoro che la fotografia può essere una forma estesa di terapia».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Ancora oggi mi trovo a lottare con questo. Perché non voglio cambiare la genuinità che mi ha accompagnata fin dall’inizio. Ma all’improvviso ti trovi di fronte a cose del tipo: “Ok, ora devo vendere il mio lavoro, e per farlo devo comportarmi in questo o quel modo, perché è quello a cui la società è abituata”. Quindi si cerca di adattarsi al “mondo delle apparenze”, ma si sa a malapena come funziona. Purtroppo, prima o poi dobbiamo fare i conti con questa situazione.
In breve, è estenuante, ma è qualcosa che diventa parte della vita di un artista, ancora di più oggi con la frenesia dei social media, dove devi creare un’immagine per le “persone che ti guardano”. Gli artisti si trovano spesso di fronte all’urgenza di creare un’immagine sociale e pubblica. Quello che cerco di fare è ricordare quanto la fotografia sia sempre stata reale per me. Un modo per non perdersi completamente».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Siamo in continuo cambiamento. Credo che come artisti siamo sempre in uno stato di cambiamento e alla ricerca di nuove ispirazioni, ma certamente ci vuole un po’ di tempo e molta costanza per trovare la propria identità. Forse sono solo un’altra fotografa che cerca di trovare conforto nell’arte. È vero, ma è anche vero che per me i valori che non dovrebbero mai cambiare nel mio lavoro e nella mia identità sono: l’onestà, la spontaneità e la scintilla che mi ha reso un artista».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Non posso non essere d’accordo. L’ho scritto molto tempo fa a proposito degli autoritratti: “Tu porti le persone nella tua intimità, ecco perché è così profonda”. Mi sono trasferita in Europa dal Brasile per essere una artista. Quindi a questo punto devo credere di essere una artista agli occhi del mondo. Anche se spesso dubito di me stessa».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Mi sarebbe piaciuto fare la pittrice, perché alcuni dipinti parlano davvero al mio cuore. Ma voglio comunque combinare ciò che ho imparato negli anni con la fotografia per diventare in futuro un direttore della fotografia magari nel cinema».
Biografia
Catia Simões (Palmeira das Missões/RS [BRA], 1989) dopo la laurea in giurisprudenza, trova il suo vero mezzo espressivo nella fotografia intesa come lo strumento più puro per potersi esprimere senza ricorrere all’uso delle parole. Attualmente vive in Sardegna. La sua ricerca si concentra sul ritratto e segue due principali direzioni: da un lato ci sono intimi autoritratti che inizia a realizzare quando, essendo soggetta a stati d’ansia e attacchi di panico, sceglie la fotografia come forma di estensione terapeutica personale; dall’altro i ritratti di persone a lei vicine, che si identificano con il suo lavoro e il suo processo e condividono gli stessi sentimenti ed emozioni. L’influenza e l’uso della fotografia analogica, della luce naturale, di ombre marcate e profonde, diffondono quell’atmosfera malinconica e nostalgica che caratterizza le sue opere.