2018 Roma © Fabio Sgroi
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Fabio Sgroi.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Intanto bisognerebbe capire ed interpretare il perché una qualsiasi produzione possa essere giudicata all’interno del settore artistico. C’è chi giudica qualcuno e lo reputa un artista o lo dichiara un artista, o chi pensa di esserlo o chi lo percepisce nel corso degli anni.
Dal mio punto di vista, posso dirti che sono un lavoratore, da subito un produttore di immagini; ho iniziato tanto tempo fa e non ho mai smesso, ho sempre lavorato in un modo e lo continuo a seguire.
Il rapporto che ho col mezzo che utilizzo, la macchina fotografica, è un qualcosa che già ti distanzia, e contemporaneamente ti immerge nella situazione, fa in modo che tu stesso interpreti, componi e realizzi a tuo piacimento e in base alla tua formazione. Nel mio caso, mi piace lasciare ampio spazio all’immaginazione dello spettatore, che può rielaborare la foto con il suo immaginario. Tutto ciò che espongo chiaramente è frutto della mia esperienza, con tutto quello che inconsciamente ho immagazzinato come un archivio nella mente e che rielaboro costantemente».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Di quale identità parliamo? La nostra identità, da singolo, o di quella che viene creata dai racconti della gente che ha sentito parlare di te. O di colui che si crea, il personaggio da sé stesso? Quando parli di tracce, sì bisogna lasciare delle impronte per fare in modo che qualcuno le veda e le riconosce come tali. Per me è difficile dichiararmi spudoratamente un artista o un fotografo con un etichetta, con uno specifico campo di azione».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Guarda, secondo me si deve guardare solamente il lavoro di una persona e giudicarla per questo».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Tutto quello che per me è interessante, riesco a portarlo in fotogrammi. Si può parlare per ore sull’identità, sulle iconografie e sull’interpretazione di noi stessi riflessi sul contemporaneo e di tutto quello che oggi rappresentiamo. E’ un mondo nuovo che si è andato allargando anche grazie ai mezzi come il cellulare, e questo, a mio avviso anche se è terribile è la vera rappresentazione del contemporaneo.
Non so dove siano finiti gli intellettuali, che dovrebbero prendere parola e posizioni. Si sta omologando il tutto in una forma inconsistente».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Non sono io che lo devo dire».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Non ti so dire ho preso una posizione nel corso del tempo, osservare quello che ho di fronte».
Fabio Sgroi è nato a Palermo. Si avvicina alla fotografia nel 1984 scattando fotografie ai suoi amici, giovani vicini alla musica punk e all’underground; nel 1986 ha lavorato per circa due anni col quotidiano “L’Ora” di Palermo. Fin dall’inizio dedica il suo lavoro alla sua città e alla sua terra la Sicilia, concentrandosi sulle ricorrenze annuali, le cerimonie religiose e la vita quotidiana. Viaggia e lavora attraverso l’Europa e in diverse parti del mondo. Contemporaneamente si concentra anche sul formato panoramico dedicandosi al paesaggio urbano e all’archeologia industriale.
Prende parte a mostre collettive ed espone in mostre personali, in Italia e all’estero. La sua carriera include la partecipazione ad alcuni progetti internazionali e residenze. I suoi lavori sono stati esposti in mostre personali e collettive in Italia, Europa, America, in istituzioni pubbliche e gallerie, tra cui: Saba gallery (New York, USA); Diaframma-Kodak (Milano, Italia); Leica gallery, (Sölms, Germania); Italian Pavilion / 54, Biennale Arte di Venezia (Istituti Italiani di Cultura nel mondo – 2011); Artget Gallery (Belgrade, Serbia); Ethnographic Museum (Belgrado, Serbia); PhotoBiennale Moscow (Russia); Biennale Photographique (Bonifacio, Francia); Center Mediterraneeen de la Photographie (Bastia, Francia); Fondazione Merz (Italia). Ha partecipato a vari festival internazionali di fotografia, tra cui: “Visa pour L’Image” (Perpignan, Francia); Rencontres d’Arles (Francia).
Tra le sue pubblicazioni fotografiche: “Past Euphoria Post Europa” con (Crowdbooks – 2017); “Palermo 84-86 – Early works” (Yardpress – 2018); “PA 90” (Union Editions – 2021); “Archivio Volume Uno” (Baco About Photographs – 2022); Chronicles of the Newspaper L’Ora Palermo 1985–1988 (Union Editions 2022); Palermo Mon Amour (Fondazione Merz).
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