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Other Identity #148, altre forme di identità culturali e pubbliche: Elisabetta Marangon
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Elisabetta Marangon.

Other Identity: Elisabetta Marangon
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Un caleidoscopio di frammenti percepiti nella loro mutevole declinazione, soggettiva e oggettiva, estetica e corporea, in bilico tra la luce e l’ombra, la sospensione e il movimento. Dapprima ignorati, iniziano d’un tratto a fluttuare dinanzi a me come spettri d’incerta natura a seconda della luce che li ritaglia da uno sfondo che mano a mano si dissolve, mentre attraverso spazi urbani ed extraurbani, familiari e sconosciuti, con respiri che variano con il variare delle loro sollecitazioni.
Possono essere segni tangibili di una presenza umana ancora radicata in un ambiente, così come gli echi di un suo trascorso ormai sbiadito; gesti colti tanto nel loro divenire quanto incompiuti, repressi, sottaciuti. Talvolta sono parabole di eventi nei quali i segmenti di un corpo anonimo richiamano e anticipano una platea invisibile che riempie l’inquadratura successiva, nella quale è il brulicare di centinaia di corpi ammassati l’uno sull’altro a marginalizzare il soggetto.
Talvolta sono i volti a traboccare dall’inquadratura fino a liquefarsi nel fuori campo, talvolta a emergere sono soltanto le ombre, ora inattese e discrete, ora invadenti ed eclatanti, dei passanti, dei pedoni, delle scolaresche, sulle vetrine ancora vuote dei negozi, oppure sui muri dei palazzi, scrostati, ridipinti, imbrattati. Talvolta la narrazione si comprime in un scatto solitario, talvolta si articola in una sequenza che ritrae entità che dialogo tra di loro con un accento talvolta contrappuntistico, talvolta sincronico, talvolta raccordato da un testo o da un rumore estraniante.
Protagonista dei miei scenari è sempre e comunque l’essere umano, e me stessa in quanto tale».

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«È difficile per me tradurre un concetto così sfuggevole come quello identitario. Forse definirei la mia un’identità contemplativa. E lo farei a partire da un elemento tattile legato ai miei primi anni di vita: un album fotografico stampato in bianco e nero risalente agli anni Sessanta. Dopo quella visione il mondo per me non è più stato a colori (e non lo è ancora)».

Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«È curioso come nella mia mente leggendo questa tua domanda, la parola “apparenza” si traduca in automatico in “appartenenza” a causa di un istintivo processo di identificazione tra i due termini. L’apparenza può essere intesa al contempo sia come una venatura sia come una manifestazione fenomenica dell’essere. Come un riflesso che, nonostante la sua natura e forse grazie a essa, rivela un’appartenenza al qui e ora. D’altronde la fotografia non è anche un’apparenza svelata della fenomenologia dell’incerto?».

Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«La ricerca identitaria e rappresentativa di me stessa non può prescindere dai molteplici richiami che l’hanno incalzata sin dai primi attimi di vita: può un nervo scoperto non essere contaminato dalla luce, dall’aria e dai germi presenti in essa?».

ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Oltre che come essere umano non riesco a pensarmi».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Quella che non potrò conoscere data la mia caducità umana».

Biografia
Elisabetta Marangon è una fotografa freelance. Discendente da una famiglia veneta emigrata nel Lazio per la bonifica della palude pontina, ha studiato fotografia a Milano e cinema al Dams di Roma Tre. Sempre a Roma ha conseguito il master in fotoreportage presso il Centro Sperimentale Adams.

Si è occupata del casting, delle scene e delle fotografie per il foto-racconto L’incendio di Via Keplero in Fiamme di Gadda, il docu-film di Mario Sesti. Ha collaborato con Lidano Grassucci al suo libro, Ucraina, la guerra vista da lontano e con la rivista alfabeta2 recensendo libri e mostre in tutta Italia. Ha esposto in vari festival tra i quali Emerging Talents, Prague Photo, ReWriters.