-
-
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
-
Other Identity #151, altre forme di identità culturali e pubbliche: Cecilia Minutillo Turtur
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Cecilia Minutillo Turtur.

Other Identity: Cecilia Minutillo Turtur
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«La mia rappresentazione di arte ha a che fare con quello che ho dentro e che spesso, a parole, non riesco a esprimere. Con la mia creatività spero di rappresentare quella parte di me che non si nota al primo impatto, e forse neanche al secondo. Trovo ancora molto difficile definirmi un’artista, quindi preferisco dare vita alla mia interiorità senza le parole, ma con le immagini, per rendere reale una parte della mia identità che altrimenti non avrei modo di esprimere verbalmente. Condividere e diffondere le mie fotografie per me è come dire: “questa sono io, anche se non lo dico e non lo so dire, dentro di me c’è questo”».

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Onestamente non ho un’idea ben precisa della mia identità nell’arte contemporanea, perché la sento cambiare spesso, e non riesco a definirla univocamente. Sicuramente sono un’identità complessa e non univoca anche per via del mio percorso. C’è tanto nella mia storia, dalla letteratura, al disegno, al cinema. Sicuramente non credo e non voglio essere “solo” una fotografa di moda, o una fotografa che fa i book, e così via. Ho provato a rispondere alla stessa domanda quando ho scritto la mia bio di Instagram. Dopo aver scritto e cancellato varie definizioni ho deciso di lasciare: “Human being looking for stories to tell.” Credo che questa mi rappresenti al meglio. Mi piace raccontare storie attraverso altri esseri umani con le mie immagini, forse sarei un cantastorie fotografico se esistesse mai».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«L’apparenza sociale e pubblica conta abbastanza nella mia attività fotografica, ma contro la mia volontà. Vorrei un mondo in cui fossero meno importanti i concetti stessi di apparenza: ciò che faccio è, nel senso che esiste, vive, e vive per esistere, non per apparire. Invece, purtroppo, tutto quello che circonda le personalità creative è diventato apparenza: il numero dei follower, la coerenza del profilo ed il suo look “aesthetic”, la visibilità, l’attrezzatura all’ultima moda, la macchina più performante. Critico questi aspetti eppure ne sono vittima anche io, perché come fotografa che vuole diffondere il proprio lavoro e la propria visione, mezzi come i social media sono ancora molto importanti.
Per quanto riguarda, invece, il discorso più “personale” dell’apparenza, ovvero come si appare e si vuole apparire quando si svolge il proprio ruolo “artistico”, in questo caso sono ancora piuttosto indipendente. Non mi interessa arrivare in pompa magna su un set, non mi interessa avere chissà quale entourage, artistico e tecnico. Cerco di essere me stessa, portando ciò che amo, le mie macchine vecchie che a volte si inceppano, i miei rullini preferiti, qualche pannello. Tutto il resto è quello che nasce sul momento».

Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Anche qui mi trovo in difficoltà perché il mio valore di rappresentazione non ha una definizione univoca. Credo di essere la somma di tutto ciò che ho appreso ed amato nella mia vita. Dei quadri che ho osservato, dei film che ho visto, dei libri che ho letto, dei fiori che ho odorato e delle foglie che ho raccolto. Sicuramente sono stata fortunata in questo senso perché sono stata esposta a tanta bellezza fin da piccola. In ogni caso, credo che si viva un po’ tutti nella dimensione del “richiamo” o della “ispirazione” a qualcosa che qualcuno ha già fatto un tempo, e credo anche sia del tutto normale.
A volte è un processo consapevole ed altre volte non lo è, ed è qui che si vede l’essere “figli” di una certa cultura. E’ inevitabile “copiare” qualcuno, anche se non lo vogliamo, perché certe cose giacciono dentro di noi senza che ce ne sia consapevolezza. Dunque, in questo senso, non pretendo di darmi una definizione, perché so già di essere un’insieme di plagi, di richiami, di ispirazioni, di sogni d’altri. Quello che fa la differenza è come poi si elabora tutto questo. La vera identità è lì. Ciò che per me conta realmente nella rappresentazione è la compenetrazione. Per me è molto importante che una fotografia sia servita a conoscere qualcosa di nuovo, qualcuno di nuovo. Trovando se stessi nell’altro e viceversa».

ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo.Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Credo che il mio agire pubblico con “un’opera d’arte” sia più per me stessa che per la percezione esterna che vorrei si avesse di me. Insomma, non faccio fotografie per apparire in un certo modo agli occhi del mondo, come dicevo nella prima domanda, le faccio principalmente per sfogare un lato dime stessa che altrimenti non avrebbe modo di venire alla luce nella vita quotidiana. Per quanto riguarda la percezione che poi, inevitabilmente, ne hanno gli altri, sicuramente mi rende felice farmi conoscere per ciò che realmente sono, ed il condividere il mio lavoro ha proprio questo senso ultimo: sentirmi compresa e vista.
Per concludere, quindi, “agendo pubblicamente” con una mia fotografia, più che apparire come una “artista agli occhi del mondo” credo di voler apparire completa, ma principalmente ai miei occhi, che troppo spesso mi hanno vista o sminuire qualcosa a cui, invece, ho scoperto di tenere immensamente nel tempo».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Altre identità culturali e pubbliche che trovo davvero interessanti e stimolanti sono sicuramente quella del regista, ruolo che spero un giorno di poter ricoprire, sempre per il concetto di voler raccontare storie con le mie immagini, quello del musicista, a cui mi sento inspiegabilmente (non so suonare neanche uno strumento) legata a causa del mio nome (santa Cecilia protettrice dei musicisti), mi piace molto anche il ruolo del costumista, perché ha sempre a che fare con il creare storie, solo con i tessuti, che mi hanno sempre affascinata.
Ultimo ma non meno importante è anche il ruolo pubblico e culturale del professore \ professoressa, credo sia una figura importantissima e piena di bellezza, poiché nell’insegnare nozioni e concetti afferenti ad una certa materia, in realtà insegna la vita, ed io ai miei professori devo ancora tantissimo».
Biografia
Cecilia Minutillo Turtur nasce a Roma il 9 Agosto 1994, dove tuttora vive e lavora. Dopo aver frequentato il Liceo Ginnasio Statale Giulio Cesare, s’iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, dove ottiene una laurea magistrale in Linguistica Applicata con il massimo dei voti. Accanto agli studi letterari Cecilia nutre una grande passione per il mondo delle arti visive, cui si approccia da giovanissima: appassionata di disegno da bambina, prende per la prima volta in mano una macchina fotografica analogica durante la sua adolescenza.
Il rapporto con la fotografia analogica, anche grazie al padre, fotoamatore, che le insegna, diventa ben presto profondo ed essenziale. La riflessione, la pazienza, la precisione e la conoscenza tecnica che veicola la fotografia analogica sono, infatti, aspetti fondamentali della concezione fotografica di Cecilia, che sente d’esprimersi davvero solo con questo mezzo.
Gli editoriali di Cecilia non possono, tuttavia, definirsi unicamente editoriali di moda: sono, piuttosto, storie e racconti, il cui messaggio vuol farsi presente attraverso le azioni di chi posa per lei, le luci dei luoghi prescelti, i colori degli abiti indossati. Molta importanza viene parimenti data all’ispirazione cinematografica nelle sue fotografie, le quali spesso nascono dalla grande passione che Cecilia nutre per la settima arte.
A oggi, infatti, è impiegata come Aiuto Operatore nel reparto di Fotografia, dove accanto alla crescente conoscenza tecnica del mondo della ripresa cinematografica, Cecilia rincorre il sogno di divenire regista, unendo così i suoi due più grandi interessi: gli studi letterari e le arti visive.
Negli anni, la fotografia è stata fonte di molteplici soddisfazioni per Cecilia: dalle pubblicazioni su riviste internazionali collaborando con alcune delle personalità creative più brillanti del panorama italiano ed europea, alla partecipazione a mostre collettive.