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Other identity #21. Altre forme di identità culturali e pubbliche: intervista ad Anna Fabroni
Fotografia
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistato è Anna Fabroni.
Other Identity: Anna Fabroni
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Io vengo da un percorso di autoritratto, sono conosciuta per questo. L’autoritratto mi ha insegnato il potere di guardasi, il beneficio di riconoscersi a dispetto di tutto e tutti. La fotografia, l’arte in genere, è un potente mezzo di espressione di immagini che sono dentro noi e difficilmente esprimibili a parole. L’arte ha il potere di portare ad un livello cognitivo esperienze e vissuti. E’ la memoria che invade il presente, è il passato che perde le cognizioni temporali e diventa il qui ed ora.
Ho usato per molti anni la fotografia e la scrittura per conoscermi, riconoscendo il forte potere terapeutico dell’atto del creare. Così mi sono iscritta Alla scuola di Nuove arti e terapie, di Olviero Rossi, per diventare un’arteterapeuta. Ho discusso la tesi a febbraio. E’ stato un viaggio durato tre anni, emozionante. E’ stato risolutivo per me. Nella vita di tutti i giorni la mia empatia ha combinato un sacco di casini, mi ha messo spesso in relazione con persone tossiche, con chi non aveva voglia di fare la sua parte, per intenderci. Nell’arte terapia è diventato un valore aggiunto, invece. Un tempo facevo workshop sull’autoritratto terapeutico, adesso faccio laboratori di arteterapia.
In entrambe i casi, mi è chiaro come l’arte mi abbia sempre messo in contratto con la parte più bella del mondo. Con le fragilità dell’essere umano, con chi ha vite difficili, ma continua a sorridere, con chi soffre ma ti chiede “come stai?”. Un regalo che non so se ho davvero meritato, ma non me lo chiedo, lo vivo con tutta la gratitudine possibile. No ho una rappresentazione di arte, piuttosto l’arte rappresenta perfettamente il centro della mia personalità: L’incontro con il prossimo che non è mai un caso è, invece, un appuntamento che istaura una relazione di cui entrambe hanno bisogno in quel preciso momento».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Come ti ho detto, in questa fase della mia vita utilizzo l’arte al fine terapeutico con altre persone. L’arte assolve, delinea, evoca. L’arte è la possibilità di lasciare una traccia di noi stessi, ma non per gli altri, per noi stessi. L’utilizzo del media artistico ci permette di esprimere profondamente disagio, traumi, possibilità ma anche di giustificare ai nostri occhi un certo narcisismo, inteso come la necessità di essere visti in questa vita. Del resto qualsiasi cosa facciamo, anche nella vita di tutti i giorni, è il nostro posto nel mondo che cerchiamo, vogliamo sentirci belli, utili, apprezzati.
Il mio accento, la mia traccia è nel volermi dimostrare e nel voler comunicare che non c’è niente di male nel volersi vedere, nel volersi piacere, nell’osare alla ricerca della nostra immagine a volte spregiudicata a volte piegata a volte dritta che sovrasta il mondo. E’ un diritto esplorare sé stessi e non bisogna avere paura di essere fraintesi. Non bisogna avere paura di attraversarsi, soprattutto, non bisogna avere paura della bellezza».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Mi fa sorridere questa domanda, perché la stai facendo ad una persona che non sa distinguere il modello di un’auto da un altro. Eppure la questione dell’apparenza è stato uno dei problemi principali nella costruzione della mia identità e nei rapporti con gli altri. Fondamentalmente io sono una che se sta seduta su dei gradini con una peroni in mano, con le persone giuste, è felice. Non m’interessa tutto ciò che ha a che fare con l’apparire, non ha mai catturato la mia attenzione. M’interessa “sentire” chi ho davanti. Questo fa davvero la differenza. I miei lavori con la fotografia hanno sempre avuto in comune l’esigenza di mostrarmi esattamente come sono, nella metafora di un corpo nudo, c’è l’accettazione della mia fragilità e allo stesso tempo la conferma della mia forza. Tante volte avrei potuto scegliere la strada comoda per apparire una vincente, ma non solo non l’ho scelta, ma non l’ho mai tenuta in considerazione.
Credo che “l’apparenza sociale” sia uno dei veri problemi di questi anni. Gli adolescenti, in particolare modo, pagano il prezzo più alto. Circondati da immagini che associano la perfezione all’essere amati, la ricchezza all’esser riconosciuti, cercano di creare la loro immagine perfetta al fine di suscitare approvazione. E’ pieno di App che modificano viso e corpo, con funzioni per snellire, allungare, stringere, truccare, cambiare il colore degli occhi, così, come ci sono molteplici agenzie che vendono “follower”, anche se non sono reali.
Poco importa, però, se sono finti, l’importante è proporre al mondo un’immagine vincente, perfetta ed amata. Un’idea di successo che non passa per le qualità individuali, le diversità o la realtà che non sempre è facile e serena, ma nel proporsi fisicamente perfetti, vestiti di loghi e pieni di ammiratori. Questo fenomeno esprime un bisogno di sicurezza, di stima e una forte esigenza di lasciare una traccia di sé. Un palcoscenico su cui si cercano consenso e approvazione: essere visti. Il problema nasce quando si scende dal palco, e si smette di essere protagonisti: L’immagine di noi perde la sincerità della realtà e s’identifica in quel personaggio che abbiamo costruito, presentato e condiviso.
Un personaggio che non smette di esistere quando le luci della ribalta si spengono, chiede cibo continuamente; così, ci si affanna ad alimentare l’immagine che gli altri hanno di noi, che hanno avallato con un “like”, ma che non siamo noi. Il rischio grande è quindi quello di accrescere un consenso mediatico a discapito della propria personalità. L’apparenza è letale è tossica. L’apparenza costringe a negare la nostra forma, in nome di una più riconoscibile e più facilmente amabile. L’apparenza ci costringe a negare le nostre ombre, le nostre fragilità le nostre paure. L’apparenza è uno specchio distorto è la pigrizia del mondo nel volerti conoscere davvero. E’ noia è fretta, è solitudine. Mi hanno etichettato in mille modi: Algida, frigida, snob, altezzosa e potrei stare qui all’infinito. Non ho mai cercato di controbattere, piuttosto ho cercato di ricordarmi sempre chi sono attraverso l’autoritratto. Se avessi dovuto badare all’apparenza, puoi immaginare, non ci sarebbe una mia foto o un mio scritto, niente. In fondo credo, attraverso la mia fotografia, di essermi sempre spinta a rappresentare il contrario. Ho sempre voluto dimostrarmi che l’imperfezione va accolta e va considerata un valore aggiunto. Tendiamo, invece, a tenerla nascosta, perché la troviamo poco amabile, ma per assurdo, è quella che avrebbe più bisogno di sentirsi accettata e abbracciata: “Eccomi, questo sono”.
Siamo in tunnel di infelicità. Il periodo di tristezza più grande che ho vissuto è stato proprio quello in cui ho creduto di dover diventare altro per essere amata, di dover assecondare un’immagine proposta dal resto del mondo. “Costole” è stato terapeutico in questo, mi ha permesso di accettare il mio intero, soprattutto, mi ha insegnato che quello che mi sembrava tanto mostruoso di me, visto da vicino non fa così paura. E’ giusto che ognuno si faccia di me la sua idea, alcune mi fanno sorridere, altre mi feriscono, ma ci sta, è il prezzo che si paga per cercare di essere liberi. Inoltre, mi è ben chiaro, che quello che si vede in me non è legato strettamente a ciò che la mia immagine rimanda, ma anche a ciò che gli altri proiettano su di me. Capisci che sarebbe impossibile stare dietro a tutti gli sguardi del mondo, trovo più edificante potenziare quello che sento dentro, anche se è fuori moda.
Il mio concetto del vivere a poco a che fare con l’apparire, io sono tutta dentro, ci sono voluti anni per accettare e difendere questa parte di me che potrei definire come le fondamenta della mia personalità. Questo, ovviamente, mi induce a guardare le perone in altro modo, a bypassare totalmente la loro apparenza. Amo chi si lascia guardare fino al nero, sono le stesse persone da cui mi lascio vedere davvero. Il resto è solo di passaggio e lascia il tempo che trova».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Mi fai venire in mente Duchamp: genio! No so cosa rispondere in sincerità, perché non sento nessun affanno e non ho un valore di rappresentazione. Sono molto banale in questo. Io sento di stare al mondo, questo significa cercare la mia personale evoluzione fino alla mia forma compiuta. Non so quale sia, so, però, di essere molto presente nel mio viaggio. So che devo condividere e se ricevo bellezza devo ridarla in qualche modo. Ridò come posso, spesso mettendo a disposizione la parte di me che ha più sofferto ed è quella che comprende di più.
E’ quella senza pregiudizio alcuno, è la me accogliente, è quella che si ostina a credere che c’è un modo di vivere la relazione con il genere umano in modo più presente. Tendere la mano. Costole è stato un lavoro fotografico in cui mi sono detta e ho provato a dire “vedi? nonostante tutto questo nero, sei bella”; l’aggettivo “bello”, per me, non ha niente a che fare con l’estetica. La bellezza è un luogo dentro di noi, è un occhio caleidoscopio, è la capacità di lasciarsi andare al prossimo, è la capacità di farsi trapassare dal vibrare della vita, con tutto gli scossoni che questo comporta. Io sento prepotentemente di esistere, non mi identifico in nulla se non nella passione che sento verso la vita; è l’unico metro di misura che conosco per capire come sto e soprattutto se dove sto, fosse anche una persona, è davvero il mio posto».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«No, tantomeno ai miei occhi. Io sono solo una che non ha paura di dirsi le cose. Sono una persona che ha visto il proprio nero e invece di spaventarsi ci si è messa a giocare con la macchina fotografica. Quando ho iniziato a fotografarmi, non c’era nessuna intenzione a far uscire da casa mia le mie foto, era semplicemente un esercizio che mi faceva stare bene. Una serie di circostanze hanno fatto arrivare queste foto nelle mani di Denis Curti, all’epoca direttore della Contrasto, ed è arrivato tutto quello che “Costole” ha portato nella mia vita.
Forse, è stata proprio questo il valore aggiunto di quella ricerca fotografica: era destinata solo a me. Non so cosa significhi davvero essere artisti. Il mondo dell’arte è contaminato da aperitivi, public relation studiate per bene, galleristi non sempre così onesti. Cosa definisce un artista? il valore che qualcuno potente gli da? L’artista vero è colui che mette in circolo bellezza, non è detto che lo si trovi per forza in una galleria d’arte».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Vorrei essere la ragazza di spalle con qualcuno accanto che le dice “non girarti finché non te lo dico io. Sei pronta? tre, due uno…” non so se vale come risposta, ma è l’unica che mi viene in mente in questo momento».
Biografia
Fotografa e Arteterapeuta. Nata a Sora, si trasferisce in Molise nell’80 dove vive tutt’ora.
A 18 anni si trasferisce a Roma e lavora come modella. Proprio su un set fotografico conosce il fotografo che le regalerà la prima macchina fotografica e con cui inizia il suo primo racconto: “Costole”, una raccolta di autoritratti che vince un premio all’interno del Portfolio in Piazza-Si Fest di Savignano e, con l’aiuto di Denis Curti, viene pubblicato dalla Wea.
Comincia così il suo percorso artistico incentrato principalmente su tematiche molto vicine al corpo, il proprio corpo, come l’anoressia di cui soffrì per 14 anni, l’accettazione di se, gli autoritratti; si esprime con tecnica cruda, colori violenti, restituisce un’immagine, un’indagine di se come un lavoro in corso, con tappe definite.
“Ho capito che la coscienza di me, di quello che sono, merda compresa, è l’unico modo per essere poco interpretabile agli occhi altrui. Io vivo in uno stato d’apnea, alla ricerca continua di un compromesso tra quello che sono e il resto del mondo. E se per anni mi sono sentita in colpa di non essere quello che gli altri vedevano in me ora, mi sembra quasi una benedizione”.