Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistato è Ida Marinella Rigo.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«La mia rappresentazione di arte è “la sincerità” in un moto ostinato e contrario. Per me l’arte è un bisogno, una necessità impellente di comunicare emozioni, visioni, mutamenti. Non è spettacolo finalizzato al consenso. Se dovessi farmi influenzare dalla richiesta del momento, smetterei di cercare di fare “arte” ma sarei un sottoprodotto di consumo».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«La mia identità è il mutamento, la metamorfosi; è sinestesia; è un caleidoscopio».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Non amo il termine “apparenza”, è un termine che mi rimanda a poca sincerità e molta finzione. Ciò che sono socialmente e pubblicamente è esattamente ciò che sono nella vita privata e quotidiana, pregi e molti difetti compresi. Detesto le dinamiche che portano a dover apparire come “vorremmo” e non per ciò che siamo o come gli altri vorrebbero fossimo in funzione del consenso sociale. L’apparire pubblicamente conta perché è l’unico modo per divulgare il nostro contenuto, non il contenitore, chiedendo rispetto della persona, oltre che dell’artista e onestà intellettuale».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Il plagio è un argomento che mi ha toccato molto da vicino recentemente. Purtroppo, le dinamiche e la sovrabbondanza di immagini associata a scarsa attenzione e cultura, portano a validare e contribuire al diffondersi di repliche di immagini e idee. Si tende a riproporre ciò che piace, che funziona, che attira, non si cerca più un linguaggio proprio di espressione per paura di non essere accettati. I social hanno creato mostri, hanno dato valore alla mediocrità, tutti possono fare tutto, basta il consenso delle masse.
Il mio valore è, come ho detto prima, la sincerità, l’urgenza espressiva, la ricerca di un linguaggio proprio spesso non conforme, l’onestà intellettuale. Tutto ciò avviene naturalmente perché ho bisogno di comunicare una visione personale e in quanto tale l’elaborato finale risulta la mia identificazione, il mio valore rappresentativo».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Io non mi definisco un artista ma un fruitore d’arte. In ciò che faccio c’è commistione di passioni come musica, pittura, fotografia, cinema…Sono un prodotto dell’assimilazione di stimoli che cerco di tradurre in immagini. Lascio agli altri la mia definizione. Con tutto ciò che ne comporta».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Esattamente quella che ho ora: una casa infestata da fantasmi. Sono una persona curiosa e mutevole, irrequieta. Cambio spesso “identità”. Non amo le etichette. Sono gabbie dorate di comodità, ma sono pure sempre gabbie».
Nata a Savona, classe ‘72, nel 2002 mi sono trasferita a Milano per lavoro.
Sebbene io abbia intrapreso una formazione a carattere scientifico ho sempre amato ogni forma d’arte, dalla musica alla pittura, dalla scrittura alla cinematografia. L’arte è sempre stata per me un bisogno, una necessità. Nel 2014 diverse vicissitudini mi portano a dover cambiare lavoro, stile di vita, a reinventarmi. Un cambiamento traumatico; ho sentito l’esigenza di esorcizzare sentimenti come rabbia, paura, instabilità, irrequietezza.
Nel 2016 ho iniziato a “curarmi” da autodidatta con la fotografia: tramite le immagini ho cercato di dare voce ai miei urli muti. La fotografia per me non è staticità ma movimento, mutevolezza, è l’indefinito all’interno del finito, è uno strumento malleabile volto a mostrare la “mia” verità.
Attraverso l’utilizzo dei riflessi, del mosso, delle doppie esposizioni e del dittico fotografico ho cercato di raccontare le mie emozioni e di riconoscermi in esse.
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