Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistato è Francesca Randi.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Lavoro attraverso quello che si definisce “automatismo psichico”, senza censure, come si verifica nel sogno durante la fase REM. Mi addentro nell’onirico, sondo il mio inconscio, ne traggo un processo artistico che mescolo ad esperienze di vita vissuta e ricordi. Una volta che visualizzo la storia che voglio raccontare realizzo un bozzetto, annoto la location e gli abiti di scena che il personaggio deve indossare. Quando sono immersa nei miei set, lascio entrare un altro elemento importantissimo: la casualità. Mi faccio trascinare da eventi completamente inaspettati che devo essere pronta a dominare.
Inoltre mi ritrovo a fantasticare sulle storie dei personaggi che coinvolgo. Da dove vengono? Chi sono? Quali segreti nascondono? Perché si trovano in quel luogo e cosa stanno facendo? Si conoscono tra loro? E cosa accadrà dopo? C’è un grandissimo senso d’attesa in tutti i miei scatti. La location assume un altro valore importantissimo. Deve dare una connotazione precisa a tutta la scena e al personaggio stesso. Tutto si trasforma».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Faccio un genere fotografico molto particolare, che da un paio d’anni a questa parte ha assunto il nome di staged photography, un genere basato sulla messa in scena e sulla narrazione. Quello che mi interessa quando racconto una storia è il mistero e l’inspiegabile che è racchiuso in essa. Mi piace esplorare i luoghi più profondi della psiche umana. Mondi inesplorati che diventano dei mezzi inusuali che ci permettono di vedere delle cose sino a quel momento celate. Abbiamo tutti delle parti nascoste e oscure, che non vogliamo vedere perché ne abbiamo paura, è la nostra ombra. Credo sia questa la mia identità nell’arte contemporanea».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Nel mondo social la differenza fra qualità e popolarità (quantità di follower) non ha nessuna importanza, perché la maggior parte di questi follower sono abituati a immagazzinare fotografie usa e getta ogni giorno e più volte al giorno, e non a tutti è chiaro che ciò che fa la differenza è il metodo, il linguaggio e il concetto. Non tutti sono in grado di leggere un immagine fotografica. Oggi chiunque ha una pagina Facebook o Instagram su cui riversare la propria mole di fotografie che riproducono i più svariati generi fotografici. È impossibile districarsi da questo labirinto di immagini.
Inoltre il valore sociale è quello che alla fine ci viene riconosciuto dagli altri. Ma c’è un secondo fattore, ovvero l’immagine sociale, che come tutti i prodotti culturali, si stacca dall’individuo che l’ha prodotta e si trasforma in un soggetto estraneo dotato di vita propria. È un meccanismo che mi fa sentire a disagio, e che purtroppo ci fagocita nei suoi ingranaggi ogni giorno».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Viviamo in un periodo storico molto difficile, dove tutto è già stato detto e fatto. Per cui creare un nuovo linguaggio artistico è davvero complesso. La fotografia digitale ha permesso a tantissime persone di approcciarsi in maniera molto facile al mondo fotografico. Tutti oggi possono imparare a fotografare anche con una certa tecnica o farlo attraverso i filtri del cellulare. È in atto la così detta rivoluzione digitale, che si è abbattuta sul territorio della fotografia artistica. Sono però convinta che tramite il racconto del proprio mondo interiore più profondo, attraverso un metodo, linguaggio e concetto ben precisi, sia possibile progettare ancora qualcosa di unico. È proprio questo che cerco di fare ogni volta che creo un nuovo progetto fotografico».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sai, ho incentrato tutta la mia vita sulla creatività e il lavoro artistico. Dico sempre che l’arte mi ha letteralmente salvato la vita. Per me quindi è una cosa fondamentale e sacra che non mi abbandonerà mai. Mi definisco un artista, una fotografa che fotografa mondi paralleli».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Mi sarebbe piaciuto moltissimo fare la regista o la criminologa. Pensandoci, fotografia, regia e criminologia sono accomunate dal fatto che scandagliano gli abissi dell’animo umano, i suoi comportamenti, le zone d’ombra per ricomporre un senso. O segnarne la sua assenza».
Francesca Randi nel 1999 incontra il mezzo fotografico. Sviluppa uno stile personale, onirico, con un immaginario fortemente surreale. L’identità, l’infanzia e l’adolescenza, il paesaggio notturno in bilico tra l’incubo quotidiano e la solitudine esistenziale, l’inconscio, il doppio, la wunderkammer e il perturbante: sono alcuni dei temi affrontati da Randi. Attualmente vive e lavora a Cagliari come fotografa e insegnante di fotografia.
«La mia ricerca si basa principalmente sul concetto di doppio e perturbante. Il Perturbante rappresenta tutto ciò che pensavamo fosse rimosso dalla nostra coscienza, ovvero complessi infantili, traumi, convinzioni personali o pregiudizi. Questo può riemergere in condizioni particolari, creando una situazione instabile alla nostra identità e generando uno stato di forte angoscia. Mi considero una fotografa-sognatrice, cerco di decifrare quello che ho sognato, e di ricrearlo attraverso il linguaggio fotografico. Questi mondi spesso inesplorati diventano dei mezzi inusuali che ci permettono di vedere delle cose sino a quel momento celate. Abbiamo tutti delle parti nascoste e oscure, che non vogliamo vedere perché ne abbiamo paura, è la nostra ombra. La mia inoltre è una visione fotografica cinematografica e narrativa».
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