Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistato è Nadja Ellinger.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Per me l’arte è un modo di pensare, di mettere in ordine i propri pensieri, e anche un modo di vedere un concetto da un’altra prospettiva. Aiuta a comunicare su un livello diverso da quello del linguaggio. Il linguaggio è spesso molto concreto, mentre l’arte spesso dà il via libera a molteplici interpretazioni, e riesce a creare significato attraverso la differenza tra cosa è stato introdotto dall’artista e cosa viene compreso dal pubblico».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Penso a me stessa come a una narratrice. Le narrazioni sono secolari e sempre in evoluzione. Considerarmi un singolo narratore in una stirpe di migliaia di milioni, e modificare leggermente la narrazione è molto stimolante».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Credo che come parte di una struttura sociale svolgiamo un ruolo più o meno importante nella vita pubblica. Dipendiamo tutti dalla struttura della società e non solo da un punto di vista puramente funzionale. Soprattutto a livello culturale, la società offre la possibilità di produrre narrazioni e soluzioni. Partecipando alla vita pubblica, possiamo aggiungere i nostri valori ed esperienze a questo processo narrativo. Questo non deve necessariamente avvenire in maniera diretta attraverso la nostra immagine personale, al contrario, può avvenire in diversi modi come ad esempio per mezzo dell’arte e della cultura».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Penso che la rappresentazione nel senso di ri-presentazione sia indispensabile per la comunicazione tra gli uomini e le donne, che si basa su segni e simboli acquisiti. La nostra comprensione culturale cresce grazie all’apprendimento di nuovi simboli e alla combinazione di questi, così come il linguaggio cresce attraverso la composizione di segni. Tuttavia, dobbiamo sempre operare su ciò che già esiste per essere capaci di produrre significato. Vale lo stesso nell’arte: facciamo riferimento a ciò che è già stato realizzato, ma aggiungiamo le nostre creazioni per produrre nuovo significato che l’osservatore è capace di leggere e comprendere».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Credo che ogni persona sia molte cose contemporaneamente; cose che si sovrappongono, divergono e persino si contraddicono le une con le altre. Spesso dipende anche dal contesto, quali di questi ruoli svolgiamo o siamo tenuti a svolgere. La curiosità e gli interrogativi legati all’essere un artista sicuramente mi aiutano in molte altre aree, così come traggo beneficio da altre esperienze nel mio lavoro artistico. Quindi penso che ogni aspetto di una persona venga visto contestualmente e a volte vengo percepita come un’artista, altre volte no».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Sono felice della mia identità. Qualcuno dovrebbe essere me».
Nadja Ellinger è un’artista visiva interessata al racconto come un modo per esplorare nuove narrazioni fuori dal percorso. È nata nel 1993 in un piccolo borgo medievale al centro della Germania. Trascorrendo la maggior parte del tempo nella foresta e nei libri, si innamorò delle fiabe, del folklore e della narrazione. Dopo aver completato la sua laurea in fotografia presso l’Università di Scienze Applicate di Monaco, ha studiato per il suo Master in Fotografia presso il Royal College of Art di Londra dal 2018 al 2020.
Il lavoro di Nadja è stato esposto e pubblicato nel Regno Unito, Stati Uniti, Italia, Emirati Arabi Uniti, Danimarca, Germania e Francia. Di recente ha esposto al Copenhagen Photofestival 2021, all’OpenWalls Arles 2021 e all’Ashurst Art Prize 2021 a Londra per il quale è attualmente nella rosa dei candidati. Ha lavorato su commissione di clienti come Vogue USA, British Design Museum e altri.
«Le fiabe hanno una storia secolare e si trovano in tutte le culture. Sebbene oggi spesso sia popolare solo una singola versione di un tipo da favola, in realtà di solito ci sono centinaia di variazioni. Attraverso il processo di narrazione e ri-racconto, continuano a sviluppare, consolidare e assorbire gli sviluppi culturali e politici. La mia pratica si basa su questo aspetto della rivisitazione, utilizzando il carattere fluido della fiaba per sviluppare nuove variazioni e strutture narrative. In collaborazione con i miei protagonisti si crea una narrazione personale. La storia diventa così un oggetto di transizione: un mondo interiore viene proiettato nella foresta. Attraverso questo ribaltamento verso l’esterno, è possibile uno spazio esperienziale e condiviso. Qui il protagonista può incontrarsi e vivere se stesso e l’altro attraverso l’atto di giocare nel doppio senso della parola: come l’impegno infantile in un gioco così come la recitazione in una parte».
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